Raccontare l’alterità: Enea e le radici nell’altrove

Giulio Guidorizzi, Enea, lo straniero. Le origini di Roma, Einaudi, pp. 180, euro 14,00 stampa, euro 7,99 epub

Nel mondo contemporaneo, dinanzi ai nostri occhi l’orizzonte non appare netto, anzi il suo essere offuscato da un condiviso senso di smarrimento ci impedisce di procedere determinati verso una meta. Abbiamo bisogno di modelli cui ispirarci, di storie simili a quelle che ascoltavamo da bambini e che, nel segno di una tradizione millenaria, ci prospettino sfide ardimentose e superabili. Sembra rispondere proprio a questa esigenza il percorso tracciato dallo studioso Giulio Guidorizzi, il quale negli ultimi anni ha proposto con la casa editrice Einaudi saggi divulgativi dedicati all’Iliade e all’Odissea (Io, Agamennone. Gli eroi di Omero e Ulisse. L’ultimo degli eroi) che si distinguono per il loro impianto narrativo e che, mentre porgono al lettore interessanti nozioni sul mondo antico, gli permettono di immergersi nel racconto. Nel volume più recente, Enea, lo straniero. Le origini di Roma, l’autore trasforma in prosa la poesia virgiliana e, concedendosi qualche libertà, illustra con notevole capacità immaginifica le peripezie del protagonista; in particolare, la vicenda del profugo troiano è qui inquadrata attraverso la lente della sua alterità, della sua condizione di sradicato.

“Non si trasportano altrove radici”, scriveva nel Novecento la poetessa Maria Luisa Spaziani, facendosi interprete di una consapevolezza atavica, per quanto amara; Enea tuttavia riesce a sovvertire questa legge dell’umano, perché assume su di sé il peso e il valore della memoria nel momento in cui prende sulle sue spalle l’anziano padre Anchise, per sottrarlo alla morte altrimenti certa nella città in fiamme e per portare in salvo il patrimonio di saggezza e tradizioni di cui è incarnazione. Nella rovinosa fuga da Troia, lo stanco genitore prende infatti con sé i Penati, idoli d’argilla che rappresentano i genî protettori della famiglia, il cui culto va custodito e tramandato generazione dopo generazione. “Un padre, i Penati: le radici più profonde della casa, il segno che malgrado tutte le sventure resta qualcosa che lega il passato al futuro, perché il futuro non avrà mai un senso senza la memoria di quello che è stato”, commenta accorato Guidorizzi. Il peso della storia è un fardello che grava sull’uomo, è vero, ma è al contempo una garanzia di solidità, capace di scongiurare il rischio della solitudine e di arginare lo sconforto che deriva dal disorientamento.

La mancanza di certezze in merito al futuro, in effetti, suscita inquietudine, ma innesca d’altra parte un’attenzione particolare nei confronti dei segni. Enea sogna, riceve continuamente visioni e messaggi divini che, esortandolo a celebrare liturgie antichissime, arcane e prodigiose, lo instradano sulla via che lo condurrà al traguardo cui è predestinato. Rifondare la patria perduta, è questo il suo destino – o, meglio, il suo fatum. “Fatum, da fari ‘dire’: ciò che è stato detto, una volta sola e per sempre. E il carmen fatale delle Parche si spande nell’universo e riempie ogni spazio tra stella e stella; è la parola a creare il destino, ma la parola non appartiene a chi la canta, nemmeno alle Parche”, spiega Guidorizzi, mentre immagina Enea che ascolta il fruscio esile del filo che si srotola e comprende che il suo destino, per compiersi, deve condurlo in un luogo sconosciuto, lontano dalla sua origine, dall’amore accogliente di Didone e dalla fantasia di una vita condotta al fianco della volitiva regina cartaginese.

Quando i Troiani, dopo tanto peregrinare, approdano finalmente in territorio laziale, in quell’humilis Italia popolata da contadini e allevatori che nulla avevano a che fare con la grandezza degli eroi greci, non ricevono entusiastica ospitalità dagli autoctoni: i Latini, anzi, li percepiscono come stranieri invasori, predoni giunti da luoghi remoti per impadronirsi del potere, per accaparrarsi la loro terra e le loro donne, per annientare i loro riti e le loro tradizioni. È l’ancestrale paura del diverso che travolge, obnubila, paralizza – nel mito e nella realtà a noi vicina. Eppure, riassume sagacemente Guidorizzi, “gente nuova si mescola con gente antica. Così è sempre accaduto nella storia degli uomini; talvolta sono barbari che arrivano e distruggono, talvolta sono uomini più evoluti che impongono agli altri il giogo della loro civiltà, con le armi in pugno, massacrando. Ma infine questo sempre accade, prima o poi: due genti divengono una, e in quell’uno stanno il due e il molteplice, che in origine erano divisi”. Qui risiede la potenza del mito: nella sua irriducibile capacità di mostrarci ciò che ci è vicino e nei confronti del quale ci riveliamo spesso colpevolmente ciechi.