Fuori dalla “confort zone dell’antico, del classico e del medioevo”, in un tempo accorciato, addentro a quell’ossimoro o paradosso che è il “passato contemporaneo”, esiste la possibilità di un’archeologia diversa da quella consueta: non solo perché studia un passato recente ma perché indaga una realtà materiale radicalmente diversa da quella di tutte le altre epoche preistoriche e storiche: quella della modernità. A partire dalla seconda metà del XX secolo l’orizzonte temporale dell’archeologia si è ampliato prima includendo il medioevo e il post-medievo, poi l’età moderna.
Il libro di Giuliano de Felice, che insegna Archeologia dell’età moderna e contemporanea all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro, è il primo testo italiano a proporre un inquadramento teorico ed epistemologico, e nello stesso tempo una legittimazione, di questa “nuova” archeologia. Gli archeologi che si occupano di contemporaneo dovranno, forse ancora per qualche decennio, giustificarsi per aver tradito l’etimo (archeologia significa “discorso sul passato”), seppure il tradimento sia stato in qualche modo necessario, perché causato dall’insorgere violento della modernità. A partire dalla rottura dell’equilibrio tra uomo e risorse naturali innescato dalla Rivoluzione industriale, dal XVIII secolo in avanti, la cultura materiale è mutata, con una cesura senza precedenti rispetto all’età pre-moderna. Un cambiamento così profondo non può non determinare, anche, una rivoluzione disciplinare e una sorta di disagio per il fatto di vivere in un’epoca dove il passato, spesso, non ha neppure il tempo di formarsi.
L’archeologia del contemporaneo, mettendo in luce gli aspetti più inquietanti della modernità, ha uno spiccato ruolo sociale. Questo tirar dentro il presente un passato vicinissimo – che non è tanto una temporalità rimasta indietro quanto piuttosto uno spazio buio del presente – è, quasi di default, un atto politico. Rende visibile l’invisibile e il marginalizzato.
Non a caso l’archeologia del moderno e del contemporaneo è molto spesso collegata a eventi drammatici, ai paesaggi delle periferie e dei luoghi che si cerca di non vedere perché rovinano il decoro della modernità.
Contesti di studio privilegiati sono quelli delle due guerre mondiali (trincee e campi di battaglia, ma anche basi militari, campi di volo e di prigionia), nonché il lascito materiale immenso di una guerra mai combattuta come la Guerra Fredda (si pensi alle basi americane localizzate nelle Murge apulo-lucane); ma anche tutti i paesaggi della marginalità geografica e umana, come le baraccopoli abitate dai lavoratori stagionali. Leggere archeologicamente le tracce di alcuni di questi abitati contemporanei sorti soprattutto nel sud Italia, ad esempio nel Tavoliere di Puglia e nella piana di Gioia Tauro in Calabria, è un modo per rendere manifesta una materialità evitata, scartata, ritenuta imperfetta e inappropriata; calzante è, a questo proposito, il parallelo tra i rifiuti prodotti dal progresso economico e gli “scarti umani” generati dalla globalizzazione, proposto da Zygmunt Bauman (Vite di scarto, Laterza 2004) e citato da De Felice, come binomio costante dell’era moderna.
I “villaggi” legati alla produzione agricola e allo sfruttamento della manodopera sono generalmente agglomerati di baracche, privi di servizi igienici, che sorgono in aree isolate ma spesso in prossimità di preesistenze (masserie, infrastrutture abbandonate) e arrivano a ospitare sino a 2-3000 abitanti nei mesi estivi; hanno solitamente una durata di qualche anno. Ricordano, riporta l’autore, le hoovervilles americane che descrisse John Steinbeck (in particolare in The Grapes of Wrath, ovvero Furore): insediamenti effimeri, le cui tracce sono state quasi del tutto cancellate dall’espansione urbana recente, considerabili un effetto collaterale della modernità e, in quel caso, della Grande Depressione del 1929.
Un altro contesto di analisi dell’archeologia del contemporaneo è quello relativo alle migrazioni. Ne sono un esempio i progetti Undocumented Migration Project, avviato nel 2009 e finalizzato allo studio delle migrazioni dal Messico agli Stati Uniti, attraverso il deserto di Sonora in Arizona, e Archeologia delle migrazioni contemporanee non documentate, dell’Università di Pisa, incentrato sulle migrazioni che approdano sull’isola di Lampedusa. La materialità studiata da questi progetti riguarda in particolare gli oggetti persi dai migranti durante i loro viaggi. Un tempo, dalla comparsa di manufatti di un genere nuovo nel luogo di arrivo si ipotizzava, talvolta con una facilità che oggi appare un po’ ingenua, l’avvenuta migrazione di popoli e comunità. Oggi, invece, più che le novità di cultura materiale introdotte dai migranti (forse non così evidenti, nel contesto globalizzato odierno), si studiano gli oggetti perduti o abbandonati durante il viaggio, ovvero delle tracce effimere, destinate a sparire in tempi brevi.
Anche quando non sono paesaggi di conflitti, quelli a cui si interessa l’archeologia del contemporaneo sono collegati a eventi temporanei, non a stanzialità prolungate. Ecco quindi l’archeologia del cinema, dei grandiosi set cinematografici dismessi, come Camp DeMille, il set de I dieci comandamenti, sorto nei primi anni ’20 del XX secolo a Guadalupe in California e sepolto al termine delle riprese per volontà dell’omonimo regista.
Molto interessante è la lettura archeologica effettuata da De Felice, analizzando la sequenza delle immagini satellitari disponibili, del campo profughi di Moria sull’isola di Lesbo, allestito dall’UNHCR sul luogo di una base militare dei primi anni Duemila. La prima immagine risale al 2015; dall’osservazione delle successive, si deducono varie fasi di espansione e modifiche, sino all’incendio del 2020 e alla “bonifica finale”, ovvero alla demolizione del campo tra la primavera e l’autunno del 2021. Nelle immagini successive è rilevabile una damnatio memoriae digitale, cioè la ricostruzione, mediante un maldestro fotoritocco, del paesaggio com’era prima dell’impianto del campo (quindi quello del 2014). È un chiaro esempio di un paesaggio culturale di cui rischia di non rimanere quasi nulla. “Tracciare la durata e le forme di questi contesti” – scrive l’autore – “mostrandone dimensioni e impatto, è la grande possibilità che l’archeologia dei tempi moderni può offrire al nostro presente non solo per testimoniare la gravità e la tragicità della situazione attuale ma anche per evitare che la “bonifica” reale e virtuale, nella fretta di voler voltare pagina, spazzi via dal paesaggio e quindi dalle coscienze la storia di altre nude vite che non sembrano aver importanza per nessuno”. Una possibilità da cogliere perché la modernità è distruttiva come mai in passato (si pensi alle possibilità di scavo, sgombero e sbancamento meccanico) e i paesaggi moderni rischiano di essere distrutti e asportati molto rapidamente, ben prima di finire sepolti.
Si potrebbe pensare che studiare la materialità contemporanea sia più semplice che studiare quella antica che arriva a noi sempre parziale, già selezionata dal tempo. Eppure, fuori da quella confort zone del passato, tutto si confonde: la stratigrafia del terreno non si è ancora formata mentre le innovazioni tecnologiche velocizzano e ridicolizzano le rassicuranti sequenze cronotipologiche della materialità antica. Prevalgono il superfluo e il consumabile e l’osservatore non può guardare da debita distanza il contesto, perché è egli stesso all’interno del contesto, come un pesce nell’acquario. Le fonti documentarie sono sovrabbondanti e, accanto a quelle materiali, sono presenti fonti visuali e digitali che spesso sono quelle potenzialmente più informative ma anche le più fragili. Non è la dimensione fisica dell’hard disk, scrive l’autore, che può fornirci dati utili ma il suo contenuto digitale. Per ricostruire pensieri e modi di vivere di noi contemporanei i contenuti dello smarthphone saranno molto più indicativi delle caratteristiche fisiche e formali del supporto. L’archeologia del presente e del futuro dovrà fare i conti con la necessità di trovare modi per indagare, e in qualche modo conservare, la fonte digitale.
Questa archeologia ha un grande potenziale e insieme una grande responsabilità: quella di poter, forse, spezzare l’aura di feticismo che ancora mistifica il reperto archeologico. Di mostrare tutta la debolezza degli ‘stereotipi’ dell’antichità, della bellezza e delle pretese identitarie collegate al patrimonio archeologico. Chi vorrebbe e vorrà mai rivendicare il campo di Moria o i paesaggi della Guerra Fredda? – si chiede l’autore, interrogandosi sui rischi di una archeologia pubblica e partecipata, che volendo coinvolgere le comunità locali rischia di sostenere, involontariamente, i pretesti identitari di chi ritiene che le molteplici eredità del passato presenti in un paesaggio appartengano soltanto alla comunità che lo abita ora. La speranza è che “l’archeologia si riappropri di una funzione politica che non sia solo la lotta contro il deterioramento e il disfacimento dei resti del passato ma che attraverso gli strumenti della pianificazione e della tutela proponga con coraggio alla società contemporanea, e alle generazioni future, i segni delle intense disparità dei tempi moderni”.
Quello di De Felice è un libro importante che ci si augura possa essere letto da molti non archeologi. Afferma il valore dell’archeologia del e nel contemporaneo – nel suo uso fattuale, concreto, e non solo metaforico – il suo potenziale di sovversione e resistenza, la capacità di lettura e riduzione della complessità della realtà materiale.
Proprio perché il libro solleva molti spunti di riflessione, in conclusione si propongono due pensieri critici. Il primo è un interrogativo: saprà questa archeologia liberarsi dallo stigma del dramma, dell’effimero? Della responsabilità sociale a tutti i costi? Si potrà fare archeologia del contemporaneo con leggerezza, un’archeologia della moka e delle infradito? O vale solo, a legittimarla, quello che perdiamo malamente (gli oggetti o la vita), che ci viene sottratto, che nascondiamo, che siamo costretti ad attraversare (i confini, le guerre)?
Il secondo pensiero parte dalla constatazione che c’è, a ben pensarci, una grande differenza tra gli uomini e le donne anonimi del passato – quelli che non hanno lasciato traccia di sé se non nelle stratigrafie sepolte potenzialmente rivelabili dall’archeologia – e quelli del presente. La differenza è che quelli del contemporaneo non sono anonimi. Forse lo sono per noi, qui, dall’altro lato della barricata. Ma, da qualche parte, il loro contesto fisico e relazionale esiste ancora. Che non si possano analizzare le cose senza pensare alle persone lo scrisse già Mortimer Wheeler, un grande archeologo inglese del XX secolo, di cui De Felice contestualizza una celebre frase all’interno della similitudine militare in cui fu scritta: così come il soldato non combatte contro un blocco di quadrati colorati su una mappa ma contro persone, scriveva Wheeler (che ha partecipato a entrambe le guerre mondiali), così “l’archeologo non scava cose, ma persone”. Ma l’archeologo del contemporaneo, come il soldato, ha o avrebbe la possibilità di conoscere quelle persone. Quelle persone non sono senza-nome come milioni del passato. Qualcuno ancora, per qualche decina di anni almeno, li ricorderà e penserà per nome. Di fronte ai minimi resti di oggetti e di stracci che l’archeologia può documentare sul tracciato di una migrazione, c’è una famiglia, una casa, un universo materiale intatto e vivo di riferimento.
Il rischio, a forza di mettersi dalla parte dei giusti, di quelli che denunciano, è di rivendicare qualcosa che non è nostro; di riscriverlo, di chiamarlo con un altro nome. Speriamo che, come archeologi del contemporaneo, sapremo fermarci un po’ prima. Inspirare profondamente, rigettare in gola quel groppo di emotività che sale – inevitabilmente sale – e ripeterci che, ancora una volta, l’unica storia che stiamo scrivendo è la nostra, non quella degli altri.