A Roma, in memoria di Lauro De Bosis, esiste una piazza a lui intitolata, un busto marmoreo sul colle del Gianicolo, una lapide commemorativa nel liceo Torquato Tasso. A Viareggio gli hanno dedicato una strada, ad Ancona una via e una targa; qui e lì qualche istituto scolastico porta il suo nome. Ma, in verità, in quanti sanno chi è stato Lauro de Bosis?
Sarà forse partito da questa considerazione Giovanni Grasso, autore del suggestivo Icaro, il volo su Roma, rappresentazione narrativa delle vicende storiche e biografiche di De Bosis, scrittore, poeta, saggista, traduttore, docente universitario e artista olimpico italiano, il cui nome, per citare la voce di Wikipedia, “è indissolubilmente legato all’impresa propagandistica che lo condusse alla morte, il celebre volo su Roma del 1931”. Già, perché Lauro, fervente antifascista, il 3 ottobre di quell’anno si rese autore di un’azione eroica: con un brevetto di pilota preso con qualche lezione e poche ore di volo, partì da Marsiglia alla guida di Pegasus, un Messerschmitt BFW M.23 b., attraversò il Tirreno e violò i cieli della capitale italiana beffando la tanto decantata efficienza dell’aviazione comandata da Italo Balbo, sganciando sulla città quattrocentomila volantini inneggianti alla rivolta e alla libertà dalla dittatura fascista. La storia narra che Mussolini in persona s’affacciò da Palazzo Venezia incuriosito da quella che pareva una singolare nevicata, afferrò uno dei volantini che volteggiavano come candidi fiocchi e, lettone il contenuto, afferrò imbufalito il telefono per cercare Balbo e il capo della Milizia romana. Non trovandoli chiamò l’aeroporto di Ciampino, berciando all’annichilita guardia di lavare immediatamente l’onta di quell’ingiurioso smacco. Solo allora si levarono in volo i caccia dell’aeronautica italiana all’inseguimento dell’ardimentoso pilota autore di un tale clamoroso gesto.
Il temperamento fiero, romantico e idealista di De Bosis, la brillantezza intellettuale, la ricca esperienza umana ed esistenziale dell’esilio densa di progetti eversivi e di contatti con i più grandi fuoriusciti antifascisti del ventennio, l’appassionato e tragico amore che lo legò a Ruth Draper, celebre attrice di teatro americana più grande di lui di diciassette anni, la drammatica e convulsa epoca in cui si svolse la sua breve e avventurosa vita: tutto ciò costituisce l’affascinante trama per un affresco romanzesco di un uomo e del suo tempo. Alla seconda prova narrativa, Giovanni Grasso ha lodevolmente colto in pieno questa possibilità, consapevole della portata anche simbolica della vicenda e delle sue risonanze nel momento storico che stiamo vivendo.
In realtà, anche da un punto di vista critico-letterario Icaro, il volo su Roma è un’opera riuscita. Malgrado alcuni passi in cui alla vena narrativa si sostituisce un registro cronachistico che con essa collide, col racconto di fatti ed eventi privi di uno stile e di una tecnica autenticamente romanzeschi – caratteristica peraltro di gran parte della letteratura italiana contemporanea –, l’opera di Grasso appare convincente, in particolare nei dialoghi e nella ricostruzione storica e di costume d’epoca, con personaggi ben delineati e una non facile caratterizzazione geografica, alquanto composita, poiché le vicende hanno luogo tra Italia, Stati Uniti, Inghilterra, Francia, Svizzera e Germania. Romanzo storico, dunque, arricchito da opportune invenzioni, ma anche e soprattutto romanzo di formazione, poiché narra della progressiva presa di coscienza di un giovane nobile, idealista acceso sino all’ossessione, che si sottrae a un comodo e brillante destino di poeta e d’intellettuale per disporsi al sacrificio di affetti amore e vita immolandosi al sacro fuoco di un ideale assoluto di libertà, in un momento in cui gli italiani, impantanati nelle paludi limacciose del conformismo e dell’acquiescenza, erano soggiogati dalle sirene totalitarie d’una dittatura che pure aveva già ampiamente rivelato il suo volto criminale.
Con una narrazione in terza persona, alternando racconto al passato con l’uso del presente per dare movimento e incisività alle scene, le vicende seguono un arco temporale di ventidue anni, dalla primavera del 1928 al giugno del 1950, soffermandosi però sul triennio 1928-1931. Oltre al protagonista e alla sua fedelissima compagna, vi compaiono numerose figure storiche: da un inquietante Mussolini che, avvolto in una nube di minaccioso silenzio, assiste nel suo studio a una recitazione privata di Ruth Draper, a grandi artisti come Pirandello, Jean Cocteau, Josephine Baker, il pianista e uomo politico Ignacy Paderewski, alle tante figure di esuli antifascisti che non si rassegnarono all’idea della perdita della libertà: don Sturzo, Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti, Claudio Treves e numerose altre, evocate o rappresentate. Con loro, vengono tratteggiati i diversi schieramenti antifascisti, le rispettive posizioni politiche e programmatiche che li divisero, i timori, i sogni di riscatto, la profetica e indomita visione di un futuro di democrazia e di libertà che ne guidò le scelte.
Protagoniste sono anche le città: la scintillante e iper-moderna New York alle soglie della crisi del 1929, la Parigi dei teatri e dei bistrò, pullulante di figure ambigue e spie dell’Ovra, la Berlino impoverita e decadente della Repubblica di Weimar, sferzata dalle gelide raffiche del montante nazismo. E naturalmente Roma, vividamente ritratta con le sue maestose bellezze rinascimentali, barocche e neoclassiche e nella sua dimensione olimpica senza tempo che quasi surrealmente si scontra con un momento di traumatica transizione urbanistica, su cui incombono scuri nembi di paura e di violenza, dalle cui strade si leva un marciume ideale e un decadimento morale posticciamente impiastricciato da una putrescente patina di ordine e di disciplina. Non a caso, proprio tra le sue antiche vestigia sono ambientate alcune tra le scene più suggestive, emotivamente e strutturalmente centrali nelle vicende e nella caratterizzazione dei personaggi, come quella notturna ai Fori imperiali dove sboccia l’amore tra Lauro e Ruth, o il volo finale che riprende le allusioni mitiche del titolo e del dramma in versi di De Bosis, e che ne sorvola tutti i luoghi topici come tanti nervi scoperti.
E così, in un intarsio di notizie, fatti e aneddoti d’epoca che contribuiscono a intessere la tela storica, il racconto di una grande storia d’amore inestricabilmente intrecciata all’amore, altrettanto – se non più – grande per la libertà, giunge in un crescendo al suo tragico epilogo. Il romanzo si chiude con un opportuno salto temporale, con Ruth Draper che torna in Italia nel 1950, a guerra terminata e democrazia instaurata. È uno struggente viaggio nella memoria e nel ricordo, ma anche di scoperta e di dolente svelamento di quanto di Lauro sia rimasto in vita. Sono scene commoventi, che, gettando un ponte tra il passato ed il futuro, svelano il significato più autentico delle vicende narrate. Perché il domani del tempo romanzesco è il nostro oggi, e un drammatico, doloroso oblio di ciò che è avvenuto in questo Paese è forse il monito che questo romanzo lancia alle nostre orecchie ormai insordite.