Giovanni Comisso / La guerra guardata da un poeta

Giovanni Comisso, Giorni di guerra, La nave di Teseo, pp. 251, euro 20,00 stampa, euro 11,99 epub

Uscito nel 1930, questo libro di memorie della Prima guerra mondiale di Giovanni Comisso (1895-1969), Giorni di guerra, fa il paio con l’altro suo più importante testo memorialistico che speriamo presto La Nave di Teseo ristampi nella sua attuale riproposta dell’opera del dimenticato scrittore trevigiano: Le mie stagioni, uscito molto più tardi, nel 1951, ma che racconta la vita immediatamente successiva del giovane Comisso, il dopoguerra e la sua partecipazione come legionario nel 1920 all’impresa dannunziana di Fiume. Ricavata dai taccuini di appunti e dalle lettere scritte ai genitori dal fronte, e scandita cronologicamente per anni, dagli ultimi mesi del 1914 fino al 1918, la testimonianza di Comisso si staglia sicuramente come un unicum nella diaristica bellica.

Il coscritto diciannovenne (non volontario, dettaglio importante), prima soldato, poi allievo ufficiale e infine tenente nel genio telegrafisti, raramente descrive la trincea e la prima linea che frequenta solo di sfuggita, ma si attarda soprattutto nelle retrovie. Non ci sono quasi battaglie nei suoi scenari e la guerra, che incombe da lontano e piomba talvolta a tradimento su fanti spesso sfaccendati, in una selva di cannonate o nel volo minaccioso di apparecchi nemici, appare più che altro come una scampagnata sensuale, scandita solo dai bisogni del corpo: la fame e la sazietà, il caldo e il freddo, la contemplazione dei paesaggi montani e delle anatomie conturbanti dei propri commilitoni intenti a lavarsi nei fiumi o a prendere il sole nudi (Comisso rivela ellitticamente, come farà più esplicitamente in Le mie stagioni, il proprio omoerotismo), l’occasionale soddisfacimento sessuale con prostitute o ragazze di paese, l’alternarsi ciclico delle stagioni su una natura del tutto indifferente alla follia bellica, in cui si agitano mosche, formiche, uccelli, animali da cortile.

Comisso, più poeta che narratore, si sofferma sulla sontuosità profumata di un’arancia, sbucciata in una pausa tra le missioni, o sull’albero di ciliegie dolcissime mentre i soldati si arrampicano per cogliere avidamente i frutti spargendone il succo sulle divise. È succo di ciliegia più che sangue quello che resta delle sue rievocazioni. Talvolta l’idillio è turbato dalla visione di un cadavere gonfio e nero, talvolta l’eco della marcia dell’Aida intonata grossolanamente da una banda militare e portato dal vento in lontananza, introduce al truce spettacolo di una fucilazione: un povero soldato portato a braccia dai compagni come a seggiolina d’oro, tragico gioco di bambini da cui il narratore ritira lo sguardo al crepitare dei fucili, sfuggendone l’orrore. Non mancano episodi quasi umoristici come l’istituzione del bordello, parte mancante nella prima edizione del ’30 e introdotta solo in quella successiva degli anni ’50, con la fila dei giovanotti intimiditi che aspettano il turno, un’atmosfera familiare a chi ricorda la canzone di Jacques Brel Au suivant, ma Comisso, più reticente di Brel, ci nega ogni dettaglio intimo una volta che ha varcato la soglia. Anche la rotta di Caporetto, in cui l’autore si ritrova coinvolto, viene descritta nell’incomprensibile dinamica, nella caotica tragicità di uno scenario apocalittico, ma senza enfasi, con tratto impressionista, quasi puntillista, in un flusso rapsodico da un’immagine all’altra, in cui si colgono più i singoli particolari della vista d’insieme.

Manca in Comisso qualsiasi giudizio critico esplicito, qualsiasi precisa presa di posizione ideologica: la sua guerra è fatta di puro sguardo, non c’è condanna né celebrazione se non attraverso la limpida esaltazione animale della giovinezza. Infatti il libro, pur acclamato da letterati e intellettuali, alla sua uscita nel ’30 fu osteggiato dalla critica ufficiale fascista e, quando non apertamente antipatriottico, fu giudicato poco fervente di ideale. Ugualmente la successiva avventura dannunziana, raccontata in Le mie stagioni, verrà rievocata dallo scrittore non nella magnificazione nazionalistica, o nel culto del Vate condottiero, ma nel semplice abbandono esistenziale al flusso primaverile di una nuova generazione in movimento. Un Comisso quasi anticipatore degli Hippies degli anni ’60, però con i cannoni al posto dei fiori.