Giovanna Sicari / Il grande respiro

Giovanna Sicari, Roma della vigilia, Lietocolle/Pordenonelegge, pp. 42, euro 13,00 stampa

Roma della vigilia uscì la prima volta nelle deliziose Edizioni Il Labirinto, accompagnato da tre disegni di Nancy Watkins. Era il 1999, a quattro anni da Uno stadio del respiro edito da Scheiwiller (forse l’opera più complessa di Giovanna Sicari, perché votata all’ascolto del mondo) e ad altrettanti anni dalla sua morte avvenuta nella notte fra il trenta e il trentuno dicembre 2003. Una decina di poesie, delle sedici di cui è composta la plaquette, furono variamente immesse nelle prime parti di Epoca immobile, ultima opera composta e preparata dalla poetessa durante i suoi anni estremi.

Bene editore e curatori hanno fatto a riproporre Roma della vigilia in una nuova e luminosa edizione, a cui si accompagnano un’immagine altrettanto luminosa di Giovanna e una foto “romana” di Mauro Stradotto. Giancarlo Pontiggia introduce il cammino compiuto dall’autrice, passo dopo passo, nei luoghi della “sua” Roma – Monteverde, Villa Sciarra sulle pendici del Gianicolo, e le vie dove apprestava la dimora, ogni volta tra i relitti e le resurrezioni dell’Urbe. L’elegia di cui si compongono tante sue poesie, e Roma della vigilia in particolar modo, si concentra dentro una visione a tratti sfavillante (per non dire deflagrante) e a tratti preda del punto estremo, la fine, sempre in vista. La poetessa si offre alla storia, feconda della propria terrestrità, vincolata all’essere umano, all’umanità congiunta al mondo animale (soprattutto aereo, annota Pontiggia) per sempre. Ed è respiro totale, fino a che il respiro prosegue. Il pensiero di Milo De Angelis, ubicato come postscriptum, guarda alla leggenda creata nel nucleo della biografia di Giovanna, lì nutrita, e dal nucleo rivolta a qualcosa che verrà.

Giovanna non si è mai accontentata di guardare dentro di sé, ha sempre cercato le linee di fuga che dal centro arrivano alle mura della città. Roma, nel suo caso, è la polis clamorosa che fa rivivere la passione del viaggio. Roma muove artisti, scrittori e piccioni, ricorda che c’è stata una vigilia per tutto, e, ancora di più, una poesia elaborante il battito della storia. Le poesie di Roma della vigilia ricordano una fragilità intesa come colpi sordi contro le vetrate (quelle di una scuola, di un convento, di un ospedale) – esse ci regalano gli odori della stazione centrale e la prima stremata fedeltà a un’idea. Prima l’idea della scrittura, poi l’idea di un figlio, la gravidanza, il parto. Così arriva l’accelerazione del tempo, gonfio di sentenze. dolcezze e strazi. Giovanna, per mitigare i giorni, ha pietà e preghiere per alleate. Molti “momenti placati” stanno nella mutevolezza del libro, crudi d’attesa, capaci di respirare l’aria dei giovani sfiorati un tempo e perduti per sempre. La vita è questa capacità d’amare e uccidere insieme, ci dice Giovanna Sicari in pagine officianti amore “minuto per minuto”, con viso di madre che vuole rallentare il tempo per sé e per chi ama. Pagine dove ogni goccia di spazio va e viene fra il ricordo e l’acutezza reale di una stanza, di una scrivania a cui attaccarsi.

E così, in Roma della vigilia, avviene il miracolo che trasforma un segreto in vita comune, in esperienza creata. La poesia è esperienza irrinunciabile, l’accento cade nei punti giusti, rivelando un “cielo pieno d’amore”, sia esso teso sopra Le ceneri di Gramsci o sui turbamenti quotidiani dell’imprigionato. È la dignità trovata nei residui urbani, quando si ha a che fare con egoismo e arroganza. Giovanna la protegge e conserva dentro le mura, riesce a dare cittadinanza alla poesia. E con queste idee si affida all’ascolto fisico dei rumori che salgono dai selciati, dai cortili, dalle strade, riducendo la distanza fra il mondo e la propria stanza. Nei versi di Roma della vigilia il tempo registra il suo passo con tutto il credito di una riflessione mai lasciata al caso o al brutto spettacolo di una presenza che non volevamo. In ogni caso, le poesie scuotono le pupille cambiando direzione alle strade comuni. Anche nella sosta dovuta alla fatica. “Il sole ci colse impreparati al vagheggiamento / noi eravamo incolti e senza via d’uscita…”