È opinione abbastanza diffusa che Giorgio Scerbanenco (1911-1969) sia il padre nobile del poliziesco italiano. Nato a Kiev da padre ucraino e madre italiana (il suo nome è la romanizzazione di Vladimir-Dzordzo Ščerbanenko), cresciuto a Roma e trasferitosi a Milano a sedici anni, giunge al mondo dell’editoria in un periodo che oggi ci appare quantomeno eroico. Vissuto in pratica sempre con la madre (il padre morì durante la guerra civile che seguì la rivoluzione d’ottobre), si adattò a una serie di mestieri molto distanti dalla letteratura, dal momento che per ragioni economiche dovette abbandonare precocemente la scuola, ancora prima di terminare il ciclo elementare.
Il suo esordio letterario, per una casa editrice primaria (Rizzoli), è del 1934; tre anni dopo passa a Mondadori, dove diviene capo redattore della sezione periodici da edicola. Durante la guerra mondiale inizia a pubblicare la serie di romanzi d’indagine con protagonista Artur Jelling, archivista della polizia di Boston, USA: cinque titoli tra il 1940 e il 1942, più due inediti rinvenuti dalla figlia dopo la morte, e ripubblicati da Sellerio (Lo scandalo dell’osservatorio astronomico, 2011) e La Nave di Teseo (La valle dei banditi, 2020 nel quadro della riedizione di tutta l’opera dell’autore con la cura di Cecilia Scerbanenco, e in accordo con l’agenzia PNLA). Anche questi primi due titoli del successivo e più famoso ciclo dedicato a Duca Lamberti, limitato a quattro romanzi, si inseriscono in questo progetto.
Occorre dire che Scerbanenco non è mai stato dimenticato dall’editoria e dal pubblico italiano. Ha goduto di ristampe continue, sebbene non sempre nella veste dignitosa di questa edizione; soprattutto gli scrittori hanno trovato in lui un punto di riferimento, ed è comprensibile se si prendono in mano, o riprendono, i primi volumi di una serie che rappresenta un tentativo intelligente e originale di affrancarsi dal polar francese e dall’Hard boiled americano.
Duca Lamberti è un medico radiato dall’ordine e condannato a tre anni di prigione per aver somministrato l’eutanasia a un’anziana donna. Il suo è stato, ovviamente, un gesto di profonda pietà e dietro richiesta della paziente; ma Lamberti non è in grado di mentire durante il processo, come raccomandato dal suo avvocato, pur di salvarsi dalla galera. Le porte del carcere si aprono a fine pena. Lamberti, figlio di un poliziotto morto d’infarto, viene preso sotto l’ala protettrice di Carrua, ex collega del padre. Nelle prime due storie si troverà di fronte a una scelta ardua, in un certo senso tra istinto e interesse: accettare una “raccomandazione” per essere reintegrato nell’ordine dei medici e proseguire nella professione, oppure iniziare una nuova carriera, una nuova vita come investigatore di polizia?
La cura di Scerbanenco per l’ambientazione, con le automobili che percorrono le vie sempre correttamente nominate, le piazze, i navigli, ha la capacità di rendere viva agli occhi del lettore la Milano ricca e già corrotta degli anni del boom economico. Ben prima che le mafie inizino l’infiltrazione dell’imprenditoria settentrionale, la malavita locale è già inserita in una ragnatela internazionale di relazioni criminali, che Scerbanenco non tace.
Venere privata, forse il più famoso dei quattro titoli, racconta il periodo immediatamente successivo all’uscita dal carcere. Duca Lamberti è incaricato da un ricco industriale della sorveglianza e disintossicazione del figlio, divenuto apatico e alcolista. Questo lavoro si presenta ben presto come un “ponte” per il passaggio da un impegno di tipo medico a una vera e propria indagine di polizia. Dopo un inizio che aggancia l’attenzione del lettore (“perché il giovane Davide Auseri ha perduto la voglia di vivere?”) il romanzo soffre un twist un po’ brusco in direzione del giallo d’azione: ma il lettore perdona volentieri perché la storia decolla a meraviglia – soprattutto, occorre dirlo, grazie a due personaggi femminili.
La prima è Alberta Radelli, protagonista di un flashback chiave per la storia, una leva per sollevare l’empatia e la compassione del lettore. La seconda è Livia Ussaro, figura centrale nella soluzione drammatica. È evidente che la scrittura di Scerbanenco soffre, in alcuni punti, di tare narrative tipiche dell’epoca in cui visse: per esempio, il violento disprezzo per l’omosessualità maschile, che in certi vibranti passaggi sembra sostenere una virilità mediterranea che Scerbanenco non condivide completamente, oppure ancora certi atteggiamenti diciamo borderline nel comportamento delle protagoniste femminili, che suggeriscono un’attenzione per la sessualità della donna non interamente riconducibile all’immaginario erotico maschile.
Dice piuttosto liberamente Livia Ussari: “Da un punto di vista sociale è un errore o no che la donna abbia il diritto di prostituirsi, ma, sottolineo, privatamente? E solo quando lo voglia soltanto lei, senza nessun’altra spinta?” (Venere privata); ma subito dopo aggiunge: “È difficile sposarsi quando si è intelligenti. Certo, alla fine tutte si sposano, ma una donna intelligente vuole sposarsi bene, ed è difficile che incontri l’uomo adatto” (idem), che appare come una constatazione del fatto che la gestione del proprio corpo è la maggiore libertà che una donna possa ottenere in una società che non le garantisce autonomia economica. Se il personaggio si rende conto di questa desolante verità, è perché l’autore lo vuole.
Ancora per bocca di Livia: “La donna è una merce troppo richiesta, rappresenta un fattore economico e sociale troppo vivo perché non vi si crei intorno tutta una struttura di interessi”. Non è sociologia spiccia, da romanzetto periodico, ma un riflesso ideale di quella furiosa indignazione morale di Lamberti, che si trasforma in azione per risolvere la narrazione, e che è ancora il personaggio femminile a tradurre in parole: “Ho capito dove è il male, sì, naturalmente, l’ha detto la Merlin, è lo sfruttamento, non riusciremo mai a eliminarlo, ma ogni volta che si trova uno sfruttatore bisogna schiacciarlo”..
Traditori di tutti, pubblicato in origine lo stesso anno del primo romanzo, il 1966 (e solo tre anni prima della prematura scomparsa di Scerbanenco), è ambientato poche settimane più tardi. Duca Lamberti ha ancora uno studio medico, frequentato come ultima risorsa da clienti che hanno parecchio da nascondere, come donne che desiderano un’interruzione di gravidanza (negli anni Sessanta non solo l’aborto, ma persino il divorzio erano illegali in Italia), o un’operazione chirurgica che oggi chiameremmo revirgination – perché pure l’illibatezza era una caratteristica indispensabile, e a cinquant’anni di distanza, sembra di parlare di una società aliena.
Di nuovo l’azione prende avvio da una questione medica, per trasformarsi in indagine di natura criminale. Se vi sembra che l’accondiscendenza della polizia verso Lamberti sia eccessiva, e che Mascaranti ben difficilmente prenderebbe ordini da un “esterno”, ricordatevi che si tratta di fiction, e che i contemporanei esempi della letteratura e del cinema d’oltreoceano raccontano l’assoluta libertà dalle regole del detective privato: Scerbanenco almeno fa lo sforzo di inquadrare l’azione all’interno di una operazione di polizia.
Sospendiamo perciò l’incredulità, che a volte bussa forte, per goderci lo stile asciutto della scrittura, che non nasconde però la partecipazione empatica al dolore degli altri. Se Duca Lamberti è tra quelli che favoriscono la ricomposizione dell’ordine, è perché quel mondo ipocrita, materialista e perbene è comunque preferibile al dominio della forza bruta, della legge del più forte che la polizia combatte – nella fiction perlomeno.