La storia dei nostri remoti antenati e dei ritrovamenti, talvolta assai avventurosi, delle loro vestigia o dello studio e dell’interpretazione di queste, spesso tema accesamente dibattuto e controverso tra specialisti di diverse discipline, è un vero e proprio appassionante romanzo: a dimostrazione che la scienza, quando la si sa ben raccontare e divulgare, è tutt’altro che necessariamente ostica o noiosa.
Il paleoantropologo Giorgio Manzi nell’ultimo dei suoi volumi percorre, con rigoroso approfondimento tecnico e indiscusse capacità narrative, i “casi” più celeberrimi e fondativi della sua complessa e avvincente materia di competenza. Dieci “casi” come dieci esempi di detection scientifica intorno a parti di scheletri, ossa o frammenti di ossa, all’inizio misteriosi e poi – negli anni o nei decenni – sempre più rivelatori ed “espliciti”, grazie a nuove e migliori tecnologie e tecniche diagnostiche e alla tetragona applicazione degli studiosi. È la storia stessa della paleoantropologia, una scienza per le origini – come Manzi intitola il primo capitolo – e anche la dimostrazione della validità del metodo galileiano, la capacità da parte dei ricercatori di interrogarsi e fondare teorie e paradigmi sempre mobili e in divenire, capaci di evolversi, modificarsi e venire aggiornate e corrette – quando nuovi dati ed esperimenti le rivelino fallaci o incomplete –, modelli duttili come le menti delle creature che li hanno formulati, organismi biologici affinati anch’essi secondo le leggi dell’evoluzione. E Linneo e Lamarck, e Darwin e Wallace ci saranno compagni di viaggio, insieme a Johanson e Leakey, eroi della paleoantropologia o Dawson, Smith, Hinton e Teilhard de Chardin, forse villain, di un caso fraudolento (può capitare anche questo) in seguito smascherato. Il tutto incastonato in una cornice narrativa in cui un gruppo di alieni venuti dallo spazio, riscopre le tracce delle creature così brillanti, gli autoproclamati sapiens, capaci di ricostruire le proprie origini evolutive e di condurre con successo tali complesse ricerche e studi e di espandere sempre più le proprie conoscenze ma non di arrestare le cause della loro estinzione: i sapiens si sono autodistrutti, per incapacità di gestire la transizione della Terza rivoluzione industriale e il corto circuito dell’Antropocene. Come queste creature così intelligenti hanno saputo interrogare le ossa dei loro progenitori scomparsi, così i visitatori spaziali analizzano ora, sgomenti, nelle prime e ultime pagine del volume, i documenti lasciati da una specie tanto promettente e piena di possibilità, ma ormai estinta – anzi autoestinta – al pari dei Neanderthal. Un racconto morale, questo, che ci fa pensare a certi ammonimenti fantascientifici in stile Isaac Asimov.
I dieci casi reali racchiusi entro la cornice finzionale ci raccontano varie storie. La prima definisce i caratteri disciplinari della paleoantropologia partendo da Lucy, uno scheletro parziale rinvenuto ad Olduvai in Etiopia, quello di un ominide già bipede ma assai arcaico, risalente a più di tre milioni di anni fa, e identificato come Australopithecus afarensis, non ancora Homo quindi, ma alle radici, non di una linea retta come spesso si pensa, ma di un cespuglio ramificato di australopitecine, i predecessori degli Homo abilis, produttori dei primi manufatti paleolitici; dei Paranthropus boisei, i grandi masticatori vegetariani; del Pitecantropo, o Homo erectus nella sua morfologia asiatica e Homo ergaster in quella africana, il primo a controllare il fuoco e forse una qualche forma di linguaggio; e più avanti dell’Homo heidelbergensis, progenitore comune dei Neanderthal e dei Cro-Magnon (cioè noi sapiens). La seconda storia è quella del rapporto tra Charles Darwin e Alfred Wallace e della fatidica Origine delle specie, classico che nel 1859 sconvolse le scienze biologiche segnando l’avvento della teoria che spiega il meccanismo della selezione naturale (e non l’ereditarietà dei caratteri acquisiti, come pensava Lamarck) e le modalità dell’evoluzione.
Il terzo caso è quello fraudolento che dicevamo poco sopra: il tentativo, da parte di un gruppo di mestatori o forse di arruffoni in buona fede, di accreditare presso il mondo accademico una nuova specie, l’Eoanthropus dawsoni o uomo di Piltdown, interamente inglese (anche sugli ominidi c’è chi cade nel nazionalismo), innestando proditoriamente un cranio umano su una mandibola di orango. Fra i sospettati, personaggi illustri come il paleontologo gesuita Teilhard de Chardin, il geologo del British Museum Arthur Smith Woodward, e addirittura lo scrittore Sir Arthur Conan Doyle, il padre di Sherlock Holmes, appassionato, oltre che di spiritismo anche di paleontologia. Ci sono voluti quarantuno anni (dal 1912 al 1953) ma la frode verrà definitivamente smascherata: se la scienza non è solo questione di tecnica ma di metodo, i conti alla fine devono tornare. La quarta storia è quella di Lucy, l’Australopiteco di cui si è già detto, reperto ritrovato da Don Johanson nel 1974, e così chiamato in onore di Lucy in the Sky with Diamonds, celeberrimo pezzo dei Beatles che lo scopritore ascoltava al momento del ritrovamento. Il primo ominide, non più scimmia ma non ancora uomo, non ancora in grado di produrre manufatti e ancora parzialmente arboricola ma già primariamente bipede: la radice del tronco che ci ha generati.
Con la quinta storia scendiamo a un milione e 600 mila anni fa e ci spostiamo sul lago Turkana in Kenya, per incontrare il “ragazzo di Nariokotome”, 108 frammenti fossili dello scheletro di un giovane individuo (età biologica al termine della seconda infanzia, inizio giovinezza; età anagrafica più difficile da definire secondo un modello di sviluppo che non è né il nostro, né quello dei nostri parenti scimmieschi più prossimi, gli scimpanzè) di Homo ergaster (o Homo erectus africano, se si preferisce), non più un’australopitecina dunque, ma già pienamente un esemplare di Homo, seppur primordiale. Portatore di un bipedismo non facoltativo come Lucy, ma obbligato; estraneo ormai al contesto forestale arboricolo e cacciatore nella savana, già utilizzando manufatti in pietra come “protesi”, le amigdale dell’Acheluano che sostituiscono i ciottoli scheggiati dell’Olduvaiano (questa la classificazione dei manufatti del primo Paleolitico). Un cacciatore-raccoglitore che, a differenza dell’Australopiteco, ha bisogno di estendere continuamente il suo territorio per non esaurirne le risorse: l’Homo nasce come migrante e dal Turkana inizia un lunghissimo percorso out of Africa.
Seguono nel capitolo successivo, gli “hobbit” dell’isola indonesiana di Flores, scheletri di piccolissime dimensioni (un metro di altezza) e molto araici nella morfologia (un cranio dal volume encefalico inferiore a quello dell’australopiteco) ma molto recenti come datazione (appena 18.000 anni fa, quando già i Neanderthal si erano estinti da ventimila anni e, a quanto sapevamo, non restavamo che noi Sapiens). Un dato di fatto che ci dimostra la coesistenza di specie umane e ominidi molto diverse e contemporanee, secondo una struttura evolutiva ad albero e non una linea continua; inoltre prova il “nanismo insulare”, parallelo al gigantismo di altre specie (come il varano di Komodo per esempio) rimaste isolate geograficamente ed ecologicamente. Poi ancora tre appassionanti casi italiani. Il cranio di Ceprano, in Ciociaria, un Homo heidelbergensis di circa 400.000 anni fa e quindi variante ancestrale dei suoi successori Neanderthal, Denisova e Sapiens; il Neanderthal del Monte Circeo, i cui resti, spezzati e “masticati”, sono a lungo stati considerati prova di “cannibalismo rituale” ma che ora siamo invece in grado di spiegare attribuendo le fratture e le triturazioni riscontrate all’azione di iene maculate presenti nelle stesse grotte e assolvendo i poveri Neanderthal; lo scheletro di Altamura in Puglia, un Neanderthal di circa 150.000 anni fa, incastonato nella roccia di una quasi inaccessibile cava che, se e quando sarà concesso di estrarlo dal contesto in cui tuttora giace, potrà offrire altre e più vaste occasioni di studio e di scoperta. Infine il caso più noto alla cronaca, la mummia di Oetzi, l’uomo di Similaun in Alto Adige, certamente il divo assoluto della parata, ma come precisa Manzi, in questo caso non si tratta di un antenato sul piano evolutivo, ma di un Homo sapiens, esattamente come noi, vissuto nel Neolitico, appena 5.300 anni fa. Un reperto importantissimo e interessantissimo ma che quasi non riguarda più la paleoantropologia situandosi ormai alle soglie della Storia.