Giorgio Manganelli / Nel solido genere letterario delle recensioni

Giorgio Manganelli, Altre concupiscenze, Adelphi, pp. 227, euro 20,00 stampa, euro 9,99 epub

Occorrono recensori geniali, dichiara Giorgio Manganelli, e di convenienti passioni addentrandosi nelle cose presagite, viste e visitate. Definendosi recensore lui stesso, prima di rivoltarsi in nebbia nella palude “definita” estrema al termine dei propri anni geniali. Vale che egli lo scriva e ne tratti l’impuro, a ogni frequentazione libraria lungo immagini segrete, con libertà volenterosa e segreti inchiavardati da sommi autori, autori importanti e autori così così. Ma per ognuno di essi, si scrollava di dosso la pur polverosa erraticità prosastica dei più, ripetendo a ogni occasione che non si poteva fare a meno del “solido genere letterario” a cui appartengono le recensioni.

Altre concupiscenze conferma gli accanimenti onnivori resi pubblici nel primo volume (Concupiscenza libraria) uscito nel 2020 sempre per l’ottima cura di Salvatore Silvano Nigro. Lettore insistenze e labirintico come nessun altro, vi ritroviamo molteplici pagine su Dossi, Yeats, Shiel, Nabokov, Savinio, Landolfi, Arbasino, Calasso, Rabelais, Pavese, dove l’affezione è presente e si diffonde in molti altri autori. Nell’insieme letterario che molti di noi conoscono, il passo da fondista di Manganelli passa accanto a ogni genere di situazioni: leggere, contrastanti, eccitate, perfino (talvolta) futili. Ma l’obiettivo del Manga mira sempre all’individuale, all’instabile ricchezza delle pietre di paragone che ognuno individua, mira o costruisce da sé. Fortune e sfocatezze altrui sono sempre materia viva per i fuochi d’artificio del recensore, e se talvolta lo scritto ammirato sfocia in un’apparenza saggistica è perché lo scrittore scrutato (come Pavese) assume la vitalità pratica di studioso, e la tradizione si scontra in qualcosa a cui Manganelli si avvicina per abbeverarsi: i prodigi del “nuovo” talvolta assumono un ricco (e amorevolmente sospetto) sentore di “classico”.

Spiegare non è occasione da ricercare per Manganelli, se mai si tratta di raccogliere qualcosa che giustifichi la sua attenzione: quel corteggiare il buon cibo della prosa lanciando velati messaggi alla rendita fatale del mondo. Poiché il mondo visibile si attesta, finché regge, su arte e letteratura e qualcuno avendo occhi ne approfitta per tutto il tempo in cui resta vivo. La sproporzione è evidente, ma negli scritti di quest’ultimo volume fastidi e innamoramenti si sobbarcano vari concetti come magia, mito, conservazione, civetteria e invenzione mentre affabili conversazioni sceniche non smetteranno i loro abiti settecenteschi. E qui non manca una carezza manganelliana alla personalità letteraria di Arbasino, scovandovi reincarnazioni continue nonché “rapide battute” non esenti da ferocia. Le idee sono molteplici in entrambi, e la velocità di tessitura va a posizionarsi, in modo scambievole, in testo e note a piè di pagina, con l’armamentario finale dell’indice dei nomi. Interrogarsi sulle trame, per l’uno, e sulle forme di paramenti e palchi, per l’altro, può consentire quattro passi nella stupefacente opera del mondo – a tratti omerica – organizzata lungo diversi decenni da Roberto Calasso. Qualcosa per cui varrebbe la pena, spiega Manganelli, “svegliarci”. Che diritto dovrebbe essere, per il mito e per il mitografo in questione.

Il secondo di due amplissimi volumi (documentali di una biblioteca sterminata benché incompleta) infine conduce al tema di quanto il Novecento ha riconosciuto dentro le apparenze dei propri decenni, e fuor di cattedra ha emanato nelle librerie dei lettori. Potenze classiche e nuovi accorgimenti per indagare – con ribalderie, capziosità, svaghi – la “chiassosa piazza dei mestieri letterari”. La sostanza critica di Manganelli sta lontana dalla didattica, nei risvolti e nelle “minime” diffuse in varie sedi, e dunque dice bene Nigro in conclusione: “Le sue recensioni sono delle performance, nelle quali interroga l’incontro con i libri che recensisce”.