Gli scritti sulle arti di Giorgio Manganelli – com’è agilmente arguibile – non hanno nulla di accademico-specialistico né si servono di una metodologia (ancorché vagamente) storicista. Essendo emigrazioni oniriche in senso radicale, i saggi – sessanta, suddivisi dal curatore in sette parti: Artifici dell’eternità, Distanza dall’umano, Luminosi e feroci, Dannazioni naturali, Esigui e iracondi, Un animale che si copre, L’icastico quotidiano – si presentano dichiaratamente come caotico frutto di “incompetenza”: abile strategia autodenigratoria, automistificatoria che fa dell’understatement e del paradosso le sue figure di privilegio. E così, secondo il Manga, il quadro “sia esso figurativo, astratto, informale o che altro, presuppone che io lo creda parte di un mondo esistente; un mondo mentale, inabitabile, intoccabile, ma un mondo continuo, anche se simulatamente continuo; una mentita consistenza”. Mentre il museo è una vera e propria “macchinazione”, “una frode” perché “pretende di essere istruttivo” (“l’opera chiusa nella teca del museo è catturata in un lager di squisitezze, viene dichiarata eterna purché rinunci alla propria qualità magica, alla intrinseca violenza, perché accetti di essere ‘bella’”.). La pinacoteca, invece, è dotata di solo “apparente ragionevolezza”: raccogliere una “supposta bellezza” in “collezioni monotematiche” sarebbe come “fare abitare tutti i Giuseppe in un solo quartiere di una città”: “una follia che non sa che tutt’altra follia presiede alla creazione; l’arte è la figlia legittima della torre di Babele; o forse lo è il mondo”. Boutades o semplici provocazioni?
Also sprach Cortellessa nel corposo saggio postfatorio: “L’eccentricità dello sguardo di Manganelli sull’arte non si deve infatti a una presunta, provocatoria naïveté (‘Che bello non essere di professione critico d’arte, ma andar vagabondando ad adocchiare tele e disegni, e dir sciocchezze, come viene viene’), bensì a una precisa ideologia ‘anarchica’, apertamente professata nel pezzo su Edgar Wind che apre il libro: di qui, dopo le prime pagine del 1965 dedicate agli amici Novelli e Baruchello, il vagabondaggio per tele e disegni incurante di qualsiasi ordine di genere e cronologia e irriverente verso qualsiasi tradizione critica e interpretativa. Se l’artista è un ‘teppista’, che ‘mal si adatta ad una società saggiamente ordinata, retta da indubitabili imperativi morali, poliziesca e fraterna’ – è appena il caso di ricordare come proprio del ‘teppista’, pensando di insultarlo, di lì a poco gli darà appunto Pasolini –, tale non potrà che essere pure l’artifex addictus che ne parla (e vi s’ispira). Il quale però, per questa via, si mostrerà capace di sovvertire le più illustri vulgatæ”.
E l’anarchismo teppistico di Manganelli si rifrange anche nella scelta degli artisti: a Van Gogh segue Niccolò di Pietro, alle icone della Madonna (“una sorta di tema insieme figurale, geometrico e liturgico”) Katsushika Hokusai, a Emil Nolde Alberto Martini. La vorace curiosità dello scrittore, “eroicamente incompetente di letteratura”, che procede dalle stele lunigianesi e dagli ex voto fino alle libellule-mascotte di Lalique, è un compendio di irresponsabilità e profonda rivelazione, critica elusiva e intuito crociano. Provare per credere: “Le patate: che cosa sono nell’universo ustionato di Van Gogh? […] Le patate sono notte, profondità, cimitero, tomba, nero, nerità; e hanno la forma sgraziata e concentrica del mondo. E Van Gogh era adescato mortalmente, irreparabilmente dai minuscoli teschi delle patate, quei vivi morti, nutritivi fantasmi”.