Tra i Feaci simili agli dei giunge un naufrago. Sulla prima creatura su cui gli si posano gli occhi indugia l’ombra di un dubbio: è una dea? O è mortale? Comincia così uno degli episodi più delicati e ambigui dell’Odissea, l’“idillio mancato” – come lo definisce Giorgio Ieranò – tra Nausicaa e Ulisse. È con la promessa di un matrimonio, infatti, che Atena spinge la figlia di Antinoo all’incontro con Ulisse, ed è con “parole astute e dolci come il miele” che quest’ultimo la carezza, facendole balenare la prospettiva delle nozze; quando poi il re di Itaca le si rivela, ammantato di sovrannaturale bellezza: “Oh, se solo un uomo come lui potesse essere chiamato mio sposo – pensa la giovane – se si fermasse qui ad abitare, se gli piacesse restare in questo luogo”. Ma Ulisse non resterà. Scheria, terra dei Feaci, è un non-luogo tra sogno e realtà; dell’utopia possiede l’insularità e la perfezione. Ulisse vi approda addormentato e cadrà nuovamente nel sonno, abbandonandola. Così, compreso tra un sonno e l’altro, l’intero episodio potrebbe apparire come un sogno.
Il grande pregio del saggio di Giorgio Ieranò sta proprio nel venire a illuminare l’ambiguità di questi canti dell’Odissea (VI e VII), qui riproposti nella traduzione dell’autore – si rimpiange però l’assenza dell’originale a fronte. Si scoprono gli artifici narrativi (la tempesta, il sogno) che legano l’ingresso di Ulisse nel mondo dei Feaci ad altri. Proprio perché consapevole di queste somiglianze, il lettore sarà più sensibile nel cogliere la specificità dell’episodio: opposti ai Ciclopi, che sono loro imparentati, gli abitanti di Scheria rappresentano per Ulisse il ritorno al mondo degli uomini. Al tempo stesso, la compiutezza della loro società costituisce un anello intermedio tra un universo popolato da divinità (o mostri) e una dimensione che riprende le regole scandite dall’umano vivere comune. Esempio dell’armonia del loro regime è il saggio Alcinoo, basileus la cui autorità è temperata da un consiglio di saggi (nobili, sia detto en passant) e soprattutto da Arete, regina e sposa dal nome eloquente (‘virtù’): è ai suoi piedi che subito si getta Odisseo, rivolgendo la sua supplica, secondo il consiglio di Nausicaa. Con la precisione del filologo, Ieranò ci ricorda che non si tratta di “un riflesso del fantomatico, e mai esistito, matriarcato originario”, ma dell’espressione della concordia tra i sessi.
Proprio per la sua femminilità, tuttavia, Nausicaa s’impone nel racconto e nelle interpretazioni. “Omero ha fatto l’Iliade per gli uomini e l’Odissea per l’altro sesso”, commentava nel 1713 l’illustre letterato Richard Bentley, ed esiste una tradizione ermeneutica – da Ieranò puntualmente ripercorsa – che vede nel poema l’opera di una donna, un’autrice di cui Nausicaa sarebbe nientemeno che l’autoritratto. Come che sia, la sua apparente innocenza stimola la fantasia: Carducci e Pascoli ne fanno il prototipo della figlia-massaia, la “reginella della casa” (Pascoli); Goethe la immagina protagonista di un dramma che non vedrà mai la luce. Come non rimanere colpiti, infatti, da questa sposa-bambina, che chiede al papà (pappa nell’originale – VI, 57 – ed è hapax omerico) il permesso di andare a lavare i panni al fiume e che, mentre il bucato asciuga, si mette a giocare a palla con le ancelle? In questa atletica e scattante Nausicaa si riconobbe addirittura il modello della donna fascista, preferibile alla lenta e sospirosa Penelope.
Quanto queste letture si allontanino dalla complessità del testo, ce lo dimostra Giorgio Ieranò. Quanto vi sia di trasgressivo, ad esempio, nel togliersi il velo (kredemnon) per una donna; o quanto il giocare a palla (sphairizein) sia evocatore di desiderio erotico; e quanto sia poco banale che Ulisse compaia per la prima volta agli occhi di Nausicaa e delle ancelle sfigurato dal viaggio, incrostato di salsedine, irsuto come un leone minaccioso, eppure mellifluo e astuto, pronto a paragonare Nausicaa “ad una palma”. La complessità della sua figura spiega anche la proliferazione di miti alternativi, extra-omerici, che la riguardano, alcuni dei quali la vedono sposa di Telemaco – l’Odissea di Kazantzakis riprenderà proprio questa versione.
Uno degli ultimi capitoli del saggio riprende il sottotitolo: “L’idillio mancato”. Che Ulisse resti, lo desidera anche Alcinoo: “Volessero il padre Zeus e Atena e Apollo che, da uomo quale tu sei, con pensieri simili ai miei, sposassi mia figlia e fossi chiamato mio genero, rimanendo qui”. Altro è il volere degli dèi. Alla sola Penelope è concesso condividere con l’eroe quell’unità di pensieri (homophrosyne) evocata da Alcinoo. Lo stesso Ulisse si era rivolto a Nausicaa augurandole di trovare “un marito e una famiglia, e la concordia […] perché non c’è bene più grande e più saldo di quando vivono insieme con pensieri concordi l’uomo e la donna”. Nausicaa si ritrova così ad essere la pedina di un gioco già deciso.
Ulisse salpa verso Itaca con la nave fornita dai Feaci, abili marinai; nella testa gli riecheggiano le ultime parole della figlia di Alcinoo: “Sii felice, straniero, e quando sarai nella tua terra ricordati di me, perché a me per prima devi la vita”. Curiosamente, di Nausicaa, non racconterà nulla a Penelope, ragguagliandola sulle sue avventure. Che ci sia stata davvero una scappatella?