Nell’antica filosofia greca, tutta tesa alla ricerca delle “invarianti” nascoste nella realtà in continuo divenire, morire e rinascere, Socrate sposta l’asse della ricerca in modo brusco. Non più, alla base del tutto, realtà fisiche ed elementi naturali. Non più, neppure, critica spietata, sprezzatura, disprezzo per ogni schema di riferimento sino a quel punto elaborato, come hanno perseguito gli “illuministi” sofisti. Con Socrate il substrato immutabile è spostato nell’anima e nelle parole degli uomini. Conta, ora, stabilire cosa sia giusto e cosa sbagliato nel comportamento umano, che cosa siano il bene e la virtù. La situazione politica è cambiata, nel 404 a.C. Atene capitolerà agli spartani che le lasceranno il governo dell’Attica ma imporranno il governo oligarchico dei Trenta tiranni. Socrate si uccide nel 399 a.C., con suprema indifferenza verso la natura. E tutta la vertiginosa ricerca nel mondo fisico verrà dirottata in un altrove supposto, nelle idee e nei pensieri che non sono esattamente di questa terra, non sono questa terra. La realtà fisica per Platone sarà come le pareti scure di una caverna che imprigiona le anime fino a che queste non escono a contemplare la verità.
Il racconto di questo ribaltamento del pensiero occidentale è forse la parte più coinvolgente del libro di Giorgio de Santillana, uscito nel 1961 in inglese e oggi riproposto da Adelphi nella traduzione del 1966 di Giulio de Angelis. De Santillana (1902-1974), italiano naturalizzato statunitense, laureato a Roma in fisica ed emigrato nel 1936 negli Stati Uniti (era di origini ebraiche), è stato uno storico della scienza e della filosofia poco ortodosso e per nulla purista. Ha riconosciuto le origini dei principi fondamentali della scienza nel mito antico. Il mito non rappresenta una forma di conoscenza strettamente scientifica, come non le è, nelle tradizioni ebraiche e cristiana, fare discendere l’infelicità che si sente nello stare al mondo dal peccato originale. Però si tratta pur sempre di un tentativo di comprendere, di raggiungere una verità essenziale. Al di fuori dei sistemi di pensiero religiosi c’è tutto un altro ordito di idee e di visioni del mondo che hanno contribuito a creare la trama scientifica moderna. De Santillana senza pregiudizi tenta di farsi contemporaneo degli antichi pur sapendone l’impossibilità e decifrando il linguaggio antico, spesso intriso di narrativa, rivaluta i miti come fonti del pensiero moderno (in questo senso fondamentale è un altro suo libro scritto insieme a Hertha Von Dechend, Il mulino di Amleto, uscito negli Stati Uniti nel 1969 e in Italia, sempre per Adelphi, nel 1983).
La nascita della scienza, nel senso che noi diamo alla parola, avviene secondo l’autore nel breve periodo dal 600 al 300 a.C., tra la Ionia (Turchia occidentale) e la Grecia. La ricostruzione dettagliata dei sistemi di pensiero antichi si basa su pochissime righe originali (riportate nella silloge al termine di ogni capitolo) – Socrate stesso non ha scritto nulla, lo conosciamo dai testi di Platone e Senofonte – come nel caso del primo libro greco che tratta della natura delle cose e dunque della scienza, quello di Anassimandro, pensatore di Mileto nella Ionia, di cui ci resta soltanto la frase iniziale: “Ciò da cui tutte le cose nascono è anche la causa del loro giungere alla fine, come si conviene, poiché esse si fanno ammenda e espiazione l’un l’altra, secondo l’ordine del tempo”. L’ordine di Anassimandro è morale quanto è naturale. Ma la novità dei pensatori oggi noti come presocratici è che non cercano un racconto o dramma mitico per spiegare l’origine delle cose, ma una sostanza primordiale e stabile, una materia sottesa alla realtà, che per Anassimandro è l’ápeiron (“illimitato”), per Talete sarà l’acqua, per Anassimene l’aria, e così via.
Una sostanza di altro genere, il numero, sarà la proposta dei pitagorici: i numeri come “punti aventi posizione”, entità non astratte ma elementi della natura, formali e materiali nello stesso tempo. È in questa tensione tra astrazione e natura delle cose, che lascerà perplesso Aristotele, che nasce la matematica, intesa non come insieme di teoremi e formule (a quello erano già arrivati i babilonesi) ma come teoria, ricerca della dimostrazione delle formule. Nascono la geometria, la teoria musicale, la concezione di un sistema astronomico del mondo. Il termine teoria, così come filosofia, è di origine pitagorica. Fu il liberarsi dal rapporto stretto con gli elementi della natura a consentire ai pitagorici una grande creatività e libertà immaginativa, che portò, ad esempio, Filolao, nel 450 a.C., ad avanzare l’audace ipotesi che fosse la Terra a ruotare nei cieli.
Parmenide, un pensatore dal linguaggio oracolare ben distante da quello di un trattato scientifico, unisce il substrato formale dei numeri a quello materiale proposto dai filosofi della Ionia: l’essere, la tessitura del tutto, l’“Uno” come lo chiama, è una costruzione mentale la cui proprietà più evidente è la necessità logica. Dalla fisica si è passati alla metafisica e all’ontologia. Sul mondo reale, sulle realtà fisiche – dice Parmenide – ci sono pareri discordanti: quello che noi facciamo è discorrere di queste cose incerte, non dell’Uno, e in questo De Santillana vede un pensiero precursore di quello di Einstein: “Se è certo, non è fisica; se è fisica, non è certo”.
Da Democrito, di cui restano pochissimi frammenti, discende l’invenzione (la scoperta) dell’atomo e del concetto di vuoto; nell’universo senza fine, non creato, gli atomi si muovono aggregandosi e disperdendosi, secondo un principio che è già quello di inerzia. Democrito si spinge in uno spazio che per molti non è già più comprensibile, in questo modo spianando un po’ la strada a chi rinnegherà la ricerca della verità e dell’essere in quanto troppo distante dal vivere reale.
De Santillana è molto efficace nel rendere il carattere eccezionale di questi pensatori, nello stesso tempo fisici e filosofi ma spesso anche governanti, ingegneri, astronomi. Tuffarsi nelle acque oscure del loro pensiero laico e libero da dogmi (bisognerebbe essere un tuffatore delio, dice Socrate a Euripide, per comprendere Eraclito), nel loro stile talvolta criptico, è entrare – possiamo farlo solo per approssimazione – in un altro mondo dove natura ed essere sono collegati. L’autore sembra provare (non lo dice, non lo scrive) un rimpianto, una nostalgia per quella conoscenza non ancora stabilizzata. A definire, classificare, incasellare (anche la conoscenza della natura) ci penserà Aristotele, in qualche modo mettendo un freno, un blocco, all’elaborazione libera del pensiero.
Nella Grecia di Pericle i filosofi della natura iniziano ad apparire incomprensibili. Arrivano i sofisti, dissacratori e critici, che sostengono che se dell’essere non si può parlare allora tanto vale dare libera strada all’opinione, a quello che si può insegnare, ovvero ciò che è utile. È a partire da Protagora, dal suo “uomo misura di tutte le cose”, che si assiste a una separazione tra pensiero scientifico e non scientifico. Tutto quello che accadrà dopo – che pure è tantissimo: Platone, Aristotele, gli stoici, gli epicurei, il neoplatonismo (questi ultimi tre sistemi di pensiero De Santillana li definisce, in modo assai poco politically correct, “religioni scientifiche”) – in fondo riflette di luce non propria, è adattamento.
Per De Santillana è molto chiaro che la vera natura della scienza non è lineare, sviluppo di un unico pensiero corretto; non è accumulo di fatti empirici ma è sempre in qualche modo narrazione, dove si inventa almeno tanto quanto si scopre. I pensatori si guardano l’un l’altro, si osservano, si criticano, si soppesano anche a grande distanza temporale (Copernico e Newton leggeranno la divagazione di Plutarco Del volto nel cerchio della Luna, trovandoci il sistema eliocentrico di Aristarco). Non ha senso chiedersi per quale motivo i greci non scoprirono certe teorie o non portarono a compimento dei percorsi di pensiero – ad esempio, per quale motivo la rivoluzione copernicana non fu già la rivoluzione di Aristarco – perché, come scrive l’autore parlando di Parmenide, “ogni uomo vive nel suo passato, in ciò in cui ha imparato a credere”. I limiti sono storici, non personali o culturali. La vera scienza ha luogo in uno spazio dove il passato non esiste, dove tutte le filosofie e le scienze – e anche le forme di conoscenza che non vi includeremmo – sono contemporanee. È l’idea del progresso che ci fa allontanare dal passato e nello stesso tempo da una comprensione storica della scienza. La scienza è creatività, non allineamento, audacia. Forse per questo, sul finire del libro, De Santillana indugia su un pensiero di Democrito che a una prima lettura parrebbe strano e non prioritario per uno scienziato o un fisico. Un pensiero che vale come una conquista: “Una mente sgombra da timore è il bene supremo”.