Giorgio Baldisserri / Storia di una cooperativa di tipografi

Giorgio Baldisserri, Orient. Antropologia di una cooperativa di tipografi tra anni Settanta e inizio del nuovo millennio, Calibano Editore, pp. 132, euro 12,00 stampa

La storia è titolata. Riguarda niente meno che una delle più antiche e rinomate tipografie italiane, nata nel 1816 a Imola e che verso la fine del secolo divenne cooperativa di grande qualità e prestigio, stampando tra l’altro poesie di Carducci, e L’ Avanti! il famoso giornale socialista. Non è di questi tempi lontani, però, che ci narra Orient di Giorgio Baldisserri. Focus del suo racconto sono infatti trent’anni di storia di una cooperativa di tipografi attraverso un mosaico di ritratti: praticamente l’arco della principale esperienza lavorativa dell’autore. Un’esperienza conclusa col fallimento e la dismissione della stessa cooperativa.

Questo agile e raffinato romanzo potrebbe quindi situarsi in un preciso scaffale: quello delle narrazioni (tra le altre, ricordo, ad esempio, La Dismissione di Ermanno Rea – guardante la fine dell’Ilva di Napoli) aventi come scenario il relativamente recente dissolversi di siti industriali a profitto di quelle delocalizzazioni e dematerializzazioni del lavoro tanto gradite alle politiche della globalizzazione neoliberale. Ciò che viene narrato in Orient mantiene una sua evidente e particolare peculiarità tematica: quella appunto rappresentata dal fatto che la Galeati era una cooperativa, non solo quanto mai gloriosa e orgogliosa di esserlo, ma anche situata – come dice lo stesso Baldisserri – “in uno dei distretti cooperativi più importanti al mondo”.

Il tono del racconto si mantiene sempre in un registro per così dire del “riso amaro”. È tramite questo registro che sono infatti filtrate e riproposte le emozioni dell’autore: da un lato, egli stesso fin da giovanissimo coinvolto nelle speranze di un radioso futuro della cooperazione, dall’altro, alla fin fine disilluso da come queste speranze si sono dissolte. Il tormento alla ricerca di un possibile bilancio di questa esperienza resta quasi sempre sotto traccia, affiorando obliquamente, tramite una prosa molto virtuosa e al limite del poetico, ricchissima di rimandi inattesi, spesso e volentieri comici: di una comicità, a volte caustica, a volte affettuosa. Protagonisti restano i colleghi di lavoro dell’autore (tra i quali egli stesso si cela senza mai rivelarsi), tratteggiati per lo più con poche frasi o anche solo allusioni indirette, quasi pittoriche. È attraverso le loro immagini, in gran parte sfuggenti, che viene implicitamente rievocato lo scandirsi del tempo storico. Il Settantasette, le droghe, i movimenti giovanili, il terrorismo, l’assassinio di Moro, il craxismo, i soldi facili, troppo facili, le innovazioni tecnologiche, la globalizzazione,  i matrimoni con donne straniere, i mutamenti nelle relazioni famigliari e affettive, le difficoltà di stare al passo dei cambiamenti, e infine il fallimento: tutti questi fenomeni interni ed esterni alla cooperativa sono simboleggiati da una o più tipologie di personaggi che compaiono e spariscono, e a volte solo balenano per un istante, lungo la trama della narrazione. Anche le cose a volte irrompono come protagoniste nella prospettiva di uno sguardo quasi allucinato, quasi immerso in una dimensione disneyana.

Così ad esempio nel racconto di Orient si anima improvvisamente di vita propria la stilografica di quel ragioniere Contarini che fuori tempo massimo, e con metodi tanto puntigliosi quanto antiquati, provava a risollevare le sorti della cooperativa. La sua cartella – racconta Baldisserri – “che dagli anni Cinquanta lo segue ovunque, con fibbiette a scatto, le piccole serrature e la chiavetta appesa al manico con una catenella (…) ha un angolino scucito dal quale la penna stilografica (…), forse poco amante dei numeri e più portata per le lettere, dopo avere compilato per lunghi anni pagine e pagine di diligenti registri contabili, ha avuto il coraggio di perdersi, di fuggire per appropriarsi del proprio destino. Prima di andarsene ha lasciato un suo piccolo ricordo: un’isoletta di inchiostro nero, sul bordo, vicino alla cucitura”.

Ma dove le cose, la materia organica e inorganica, la dimensione meccanica e fisica, si impongono con impareggiabile energia è nella reiterata descrizione dello scenario che fa non tanto da sfondo, quanto da anima profonda di tutta la vicenda: lo scenario della stessa cooperativa  colta nella sua esistenza concreta giorno per giorno: “L’odore del lavoro e quello prodotto dal movimento delle macchine è presente anche di notte, quando i reparti sono deserti e si muove lenta soltanto l’enorme ventola dell’aspiratore. Chi ci ha lavorato può riconoscere il punto esatto in cui si trova anche se bendato e, se ci fosse qualcuno, indovinare chi è. L’odore che dà il buongiorno agli operai della composizione stringe le gole: è una miscela di piombo fuso, inchiostro misto a polvere e ascelle che non conoscono il deodorante. Quando tutte le luci sono accese si possono distinguere i colori. Le pareti di quel grande locale sono occupate da scaffalature di legno annerite dagli inchiostri che archiviano centinaia di composizioni di piombo. Ognuna è sistemata su una tavoletta, una sull’altra diventano scure colonne di ripiani che arrivano alla distanza di mezza testa dal soffitto”… e così via. Dunque, un rapporto quasi simbiotico della voce narrante col luogo privilegiato della narrazione.

Inevitabilmente lacerante è quindi il finale che porta alla dissoluzione di questo luogo. La descrizione in proposito è lunga e dettagliata, come al rallentatore, corredata di ritratti e aneddoti, come sempre tra il serio e il faceto. Il come e il perché trovano comunque momenti di sintesi stringente: “Forse in questo momento in cui la politica perde importanza e si parla di affari, una cooperativa come questa, mai stata rossa né bianca, quindi fuori dalle dinamiche degli scambi politici, dimostra tutta la debolezza di chi non è stato abbastanza scaltro economicamente e nemmeno abbastanza coperto politicamente. Così, sullo scaffale dell’opportunismo, diventa un vaso di coccio in mezzo a quelli di ferro, e riesce probabilmente più facile sacrificarla”. Ma non tutto è andato come doveva: “Cosa direbbe il maestro Paolo (Galeati) che aumentava le paghe, eliminava il lavoro a cottimo e accorciava la giornata a otto ore se vedesse, novantanove anni più tardi, i soci che si licenziano a vicenda dopo aver ridotto gli stipendi di un quarto?”.

In conclusione, il lettore può conoscere anche la musa ispiratrice del romanzo. Si tratta di Novella, impareggiabile caricaturista di tutto l’ambiente di lavoro “quasi completamente maschile e totalmente maschilista”. È chiacchierando con lei che a Giorgio Baldisseri è venuta l’idea di dover scrivere tutta questa storia. In omaggio anche a quei suoi colleghi che dissoltasi la cooperativa, parlando appunto con Novella, “Ricordano con sincero orgoglio che nemmeno i pazzi che si sono fatti la galera per una bomba alla sede del partito, o i sovversivi prelevati in reparto dalla polizia persero il lavoro. Perfino a chi scappò con la cassa e a chi andò a spassarsela in India fu data un’altra possibilità. Dicono che era giusto così.”

Resterà, si spera, la curiosità di saperne di più intorno a tutti questi aneddoti e soprattutto il perché del titolo Orient a proposito di vicende della provincia italiana, più precisamente imolese. Ma appunto, lasceremo alla diretta lettura di Orient la soddisfazione di tali curiosità.