Gilet gialli, le voci di un nuovo atto politico

A tre anni dal movimento dei gilets jaunes che ha sconvolto la Francia, Cinque mani mozzate di Sophie Divry, lascia la parola direttamente ai protagonisti del riot, vittime di una repressione militare tanto feroce quanto senza precedenti. Riscoprendo la tecnica del cut-up, il tentativo riuscito di restituire la complessità della politica dietro alla trama dei corpi e delle voci.

C’è un fantasma che si aggira per la Francia, e quel fantasma indossa un gilet giallo.
C’è un arto fantasma, si potrebbe aggiungere, vista la repressione manu militari del movimento, così com’è raccontata in Cinque mani mozzate di Sophie Divry (Luca Sossella, 2022), egregiamente tradotto in italiano da Giorgia Tolfo, con la prefazione di Raffaele Alberto Ventura. 

Tuttavia, il fantasma cui si fa più spesso riferimento è quello della rivolta popolare, tacciata di populismo; alla vigilia delle elezioni legislative del 12 e 17 giugno 2022, ad esempio, Massimo Nava ha scritto sul Corriere della Sera un lungo articolo, nel quale si legge: «Mentre socialisti e comunisti sono ridotti ai minimi termini, l’esercito di Mélenchon» – ora identificabile con la coalizione Nouvelle Union Populaire Écologique et Sociale (Nupes) – è formato da senza partito, giovani disoccupati, immigrati delle periferie, gilet gialli, ecologisti radicali, operai declassati, scontenti di tanti famiglie politiche. Ma anche da intellettuali e correnti della sinistra pacifista e critica verso la tecnocrazia di Bruxelles. È una Francia rumorosa, irrequieta, giacobina nei cromosomi, che ha trovato un efficace catalizzatore delle proprie pulsioni e attese. Mélenchon usa tutto l’armamentario del populismo di sinistra (se l’è presa anche con i «poliziotti che sparano»), ma è uomo colto, fortemente comunicativo, straordinario nell’utilizzo di moderne tecniche di consenso e reclutamento. Domenica prossima si vede addirittura primo ministro e capo di una maggioranza parlamentare: sogno fortemente improbabile…».

Per spiegare la costante ascesa della coalizione di sinistra (poi certificata dal voto, che ne ha fatto la prima forza di opposizione al governo Macron) Nava fa ricorso a un immaginario dominato dalla deprivazione (i “senza partito”, i “giovani disoccupati”, etc.), dove fanno capolino soltanto due affiliazioni politico-ideologiche, nemmeno del tutto precise: gli «ecologisti radicali» e, appunto, i “gilet gialli”. Attraverso questa prima semplificazione delle posizioni in campo, Nava giunge poi a parlare di un generico «populismo di sinistra» in base al quale Mélenchon se la sarebbe presa «anche con i poliziotti che sparano”».

Una posizione iperbolica, questa, per il giornalista – come può esserlo per buona parte del suo pubblico, e per molti altri giornalisti e intellettuali italiani, se si tiene conto della rappresentazione mediatica che si è data in Italia, a partire dal 2018, del movimento d’oltralpe [1] – ma che appare, invece, pienamente corrispondente al vero a chi abbia letto una cronaca diversa della vicenda dei gilets jaunes e, più recentemente, il libro di Sophie Divry, Cinque mani mozzate.

Ed è proprio lo scarto tra le varie narrazioni ancora oggi a disposizione che rende assai preziosa la lettura di quest’ultimo libro, consentendo di approfondire quei motivi di interesse che Tolfo espone sinteticamente in apertura della sua nota al libro: «L’esperienza dei gilets jaunes è un’esperienza profondamente francese. Non c’è stato in Italia, negli ultimi anni, alcun movimento che fosse a questo paragonabile per intensità e diffusione. La storia delle manifestazioni di protesta sociale in Francia, così come la tradizione degli scioperi, è d’altra parte storicamente diversa da quella italiana. Eppure, nonostante l’apparente specificità del racconto composto da Divry, vi è in esso una certa universalità che lo rende profondamente attuale anche per il pubblico italiano». 

Vi è certamente una “specificità francese” nella vicenda dei gilets jaunes – i cui epigoni italiani, spesso erroneamente accostati ai “forconi” dell’omonimo “movimento”, non hanno mai realmente preso piede – e, in generale, nella tradizione francese degli scioperi e dei movimenti: già questo rappresenta uno scarto rispetto alla rappresentazione di un dibattito teorico e politico che, dal secondo dopoguerra in poi, ha visto la presenza di costanti, per quanto intrinsecamente mutevoli, alleanze di intellettuali e movimenti, tra Francia e Italia. Vi è, poi, senza dubbio, una “certa universalità” nel testo di Divry, ma questa non scaturisce soltanto dai suoi elementi formali – dall’attenzione etico-politica, come suggerisce sempre Tolfo, rispetto al rischio di “parlare al posto di altr*” – né unicamente da quella rappresentazione della repressione violenta da parte dello stato sulla quale insiste Ventura nell’introduzione. 

È, forse, la manifestazione storica – tanto più sintomatica quanto più cosciente (e non viceversa, cioè all’interno di quel rapporto inverso tra azione e coscienza, che, cercando di portare acqua al mulino dell’autocoscienza, ha finito per depotenziarne gli effetti, sul piano politico) – di una nuova era del riot, come quella preconizzata da Joshua Clover in vari contributi e, a proposito dei gilet gialli, con un articolo sul sito della casa editrice Verso, a garantire una fungibilità trasversale, o “universalizzabile”, a questa narrazione. Oltre alle alleanze, più o meno solide, con le manifestazioni ecologiste – come si legge anche nel testo, nelle parole di uno dei cinque protagonisti: «Io e mio fratello piccolo eravamo andati alla marcia per il clima, anche se sapevamo che sarebbe confluita in un’unica manifestazione con i gilets jaunes» – Clover sottolinea come i riot dei gilet gialli «abbiano offerto spazio di manovra a tutto un insieme di orientamenti politici opinabili, mancando dell’antirazzismo esplicito e dell’abolizionismo implicito dei riot suburbani».

 Si ritorna a questo punto non per squalificare completamente il movimento – com’è invece successo in molte analisi che ne hanno eccessivamente enfatizzato la componente “piccolo-borghese” – ma per farlo meglio rientrare in un quadro storico, come quello del ritorno sulla scena del riot negli ultimi decenni, che spiega molti dei suoi elementi. Fra questi, vi è anche quella dell’’indistinzione tra capitalismo e Stato, fra gli antagonisti reali del movimento, cui allude anche Ventura in questo passaggio: «La mia impressione era che si trattasse soprattutto di una grande festa rivoluzionaria, un rituale collettivo di partecipazione e distruzione, lo sfogo di un malessere che aveva una causa più profonda: l’incapacità del sistema politico francese – chiamiamolo: capitalismo, socialdemocrazia, Stato liberale, modernità politica, progressismo, o come ci pare – di garantire la realizzazione delle promesse che ha fatto negli ultimi due secoli, o perlomeno negli ultimi settant’anni».

Restano possibili molti altri approfondimenti teorico-critici sulla questione [2]; di certo, non potevano nemmeno rientrare tutti in un testo, pur costruito con ottimi apparati, che fa di una certa icasticità il proprio punto di forza. Torniamo dunque a Cinque mani mozzate, per rilevare come dia una risposta, in ultima battuta, piuttosto diversa da quella che fornisce lo scrittore francese Édouard Louis su Jacobin Italia, alla domanda: “I gilet gialli possono parlare?”

Per Louis, il movimento incarna «qualcosa di giusto, di urgente e di profondamente radicale, perché trovano finalmente visibilità e ascolto volti e voci abitualmente costretti all’invisibilità»; lui stesso si è sentito «oggetto del disprezzo e della violenza che la borghesia ha immediatamente scatenato contro questo movimento», ricollegandolo poi alla stigmatizzazione della rappresentazione della Francia provinciale e rurale fornita nei suoi libri da parte della critica letteraria. Attraverso questa apparente contraddizione in termini rispetto alla Francia “invisibile” – ora attaccata, ora difesa, a seconda della convenienza politica – Louis ha rilevato l’esistenza, nel Paese, di una discorsività egemone, che attraversa tanto la cronaca giornalistica come la critica letteraria, sostenuta dalle classi medio-alte, e profondamente avversa alle istanze politiche portate dal movimento. 

I gilet gialli non riescono dunque a parlare, o ci riescono con estrema difficoltà, per l’interposizione di tale forza, discorsiva e materiale, in posizione egemone; Divry sembra rispondere alla medesima domanda, non in un articolo ma in un intero libro, lasciando spazio in modo netto e dichiarato alle parole delle cinque persone che hanno subito una mutilazione durante le manifestazioni dei gilets jaunes, a causa dell’uso, da parte della polizia, di vere e proprie armi da guerra, le granate GLI-F4 («scopro che sono caricate con il tritolo» dice uno di loro «e che sono grigie con un cappuccio rosso, mentre il gas lacrimogeno è grigio con un bordo rosso… distinguerle non è per niente facile»). Le interviste di Divry sono montate secondo una tecnica di cut-up, che Filippo La Porta ha opportunamente ricollegato alla tecnica combinatoria adottata da Nanni Balestrini per Vogliamo tutto (1971), nella quale Divry non si intromette mai, confinando la piena espressione della propria voce autoriale alla nota finale al testo.

In funzione di questa scelta, vicina a una sorta di “scrittura documentaria”, Cinque mani mozzate si presenta come un coro in cui le singole individualità sono presenti ma, in ultima analisi, indistinguibili, per poi lasciare spazio, in ogni capitolo, a un assolo, proveniente, cioè, da un’intervista singola. È la stessa dinamica tra individuale e collettivo che il movimento dei gilet gialli ha esperito, è il caso di dirlo, sulla propria pelle, a causa della repressione poliziesca: una collettività che i singoli traumi, da un lato, e la rappresentazione mediatico-politica, dall’altro, hanno cercato di polverizzare, atomizzare e, in ultima analisi, depotenziare.

È allora una scelta formale, quella di Divry, che risulta in dialogo costante con i propri contenuti, fornendo al lettore francese un’opera preziosa a molti livelli, e per la quale la traduzione italiana di Tolfo, insieme alla prefazione di Ventura, per i tipi di Sossella, si presenta su altrettanti piani proprio come Tolfo la descrive, ovvero come traduzione di «un atto politico in un nuovo atto politico».

NOTE

[1] Il problema era già stato posto, dopo poche settimane dall’inizio delle manifestazioni, dal collettivo Wu Ming in questo intervento su Giap, con la descrizione di uno scenario poi sostanzialmente rimasto immutato.

[2] Alcune di queste analisi sono state raccolto da Gabriele Proglio, sempre nel 2018, in questa preziosa ricapitolazione.