Gigi Roggero / Quando la filosofia si arena

Gigi Roggero, Per la critica della libertà. Frammenti di pensiero forteDerive Approdi, pp. 96, euro 10,00 stampa

Con un avviso, questa volta nostro, ai naviganti. Di cominciare la lettura dall’Appendice di Per la critica della libertà, che nel libro non è un’aggiunta, di solito utile per chiarire un passaggio o colmare una lacuna del testo. Se mai si tratta di una sorta di flashback, proprio come accade di vedere al cinema. Seguiamo la storia e a un certo punto questa si interrompe per lasciare posto a un episodio del passato che la illumina di luce nuova e la rende più comprensibile: la tecnica funziona perché ci permette di uscire dal vicolo cieco in cui siamo stati cacciati e di riorientarci. Accade così con la prima parte del libretto. Vi si racconta della libertà al presente, da intendere come “tempo del presentismo”, dell’ “hic et nunc”, un tempo che ci ricorda tanto l’aion greco, il sempre-essente, la durata senza limiti, che non ha né principio né fine, e che se ne sta perennemente nell’ora, privo di passato e di futuro. Solo che ad abitarlo non è il bambino che gioca ai dadi di Eraclito ma l’individuo massa al quale Roggero dichiara guerra chiamando a raccolta attorno a sé i pochi militanti rimasti, ovvero gli spiriti liberi, come trontianamente li chiama. Bene.

Oggi, ci dice, la libertà è diventata il problema mentre fino a ieri appariva la panacea di tutti i mali. La cosa non ci sorprende perché si tratta di una vecchia diagnosi stilata a suo tempo dai francofortesi per mano di Marcuse con la sua idea fissa della democrazia totalitaria e della tolleranza repressiva. Chi non ricorda l’incipit di L’uomo a una dimensione, quella “confortevole, levigata, ragionevole, democratica non-libertà [che] prevale nella civiltà industriale avanzata”? Questa idea della “libertà come problema” – non come “valore” – prodotta dalla democrazia per impedire la liberazione, è di ieri, non nasce oggi. Sorprende invece il tono dell’argomentazione e lo stile della scrittura. Non è il primo libro che leggiamo di Roggero e mai tono e stile ci avevano sorpresi come questa volta. Sorpresi e un po’ irritati. Imita Tronti? Lo mima? Lo mima. Ti accorgi subito della sintonia non solo semantica ma  anche stilistica di “questo pamphlet” col Tronti operaista di “classe operaia” e Operai e capitale. Lo mima perché il coinvolgimento è totale e personale. E dunque, avanti con la paratassi spinta con l’incalzare a ritmo battente di proposizioni secche che esercitano una forza come grida di guerra. Questo modo di procedere per aggiunte successive costruisce di per sé una sorta di sviluppo narrativo creando un effetto di attesa in chi legge. Roggero potenzia questa tensione emotiva del discorso rivolgendosi qua e là direttamente al lettore (“Fatti la tua identità, la tua autoidentità. Anche a costo di punire e martoriare liberamente il tuo corpo […] Perciò cambiati, trasformati, sovvertiti”). È così che la linea del discorso dovrebbe esibire al meglio l’aspirazione che lo spinge e l’obiettivo verso cui mira: un “pensiero forte”, che poggia sul movimento stesso della lingua. Inoltre con una sequela di aforismi sapienziali tipo: “l’istante è tutto, il processo è nulla”. Oppure: “quando il dito indica il nemico nella medaglia, gli stolti si accapigliano sulla faccia da scegliere”.  Forse è un po’ troppo.

L’Appendice – il nostro flashback – conferma questa affinità elettiva. È infatti Tronti a condurre Roggero tra le macerie ancora fumanti di un secondo dopoguerra “affamato di verità sociali”, quando il problema della critica della libertà per la prima volta è stato sollevato in ambito marxista, e poi attraverso il decennio successivo della ricostruzione, a giochi politici ormai fatti. Galvano Della Volpe, transfuga gentiliano e neofita comunista, scopritore e traduttore indefesso del giovane Marx, è il prescelto per seguire come in filigrana tutta la storia che principia da un suo libro edito nel 1946, La libertà comunista.

Cosa non va in questa riproposizione di un vecchio saggio da parte dei due? La sottovalutazione dell’approccio etico al problema della libertà comunista ivi avanzato. È Tronti a contestualizzarlo con precisione: gli anni ’43-’45. Stiamo parlando dunque di quella guerra civile in Italia che è stata anche una guerra di classe. Della Volpe matura il problema della libertà comunista, meglio, del “contatto-contrasto di libertà e comunismo” come dice Tronti, al momento della battaglia decisiva contro nazismo e fascismo. Per ricominciare da capo con un nuovo progetto di libertà o, se preferiamo, con la costituzione di una nuova libertà. Possiamo così restituire alla parola “etica” il suo valore di trascendentale assolutamente pratico. E infatti Della Volpe cerca anche, e lo trova, il soggetto capace di farsi carico di questa titanica impresa. Di questo soggetto però, ahimè, non c’è traccia nel flashback. Della Volpe aveva scritto: “Il marxismo deve, e può, per compiere intera la propria missione redentrice, saper mostrare, in maniera adeguata […] le ragioni morali, oltre che economiche; cioè infine che esso possiede anche una dottrina – superiore – della libertà e della dignità umana in generale”. Mostrare a chi? Forse è il terzo dei Manoscritti economico-filosofici del 1844 di Marx che Della Volpe aveva appena tradotto, dedicato al tema del lavoro e del comunismo, a indicargli “l’operaio minatore Stakhanov, […] il nuovo tipo di ‘uomo d’onore’, di ‘uomo nobile’, creato dall’emulazione socialista”. Oppure l’accorato appello che Togliatti rivolge nel ’45 agli operai del nord perché aumentino il rendimento del lavoro sull’esempio degli operai delle fabbriche di Napoli, di Taranto e di Terni. Lavoro e libertà, dunque. Tronti individua la diade dellavolpiana, ne parla pure ma l’attribuisce alla “persona” e il lavoro è “quello specifico modo del fare umano” general-generico di cui parla il giovane Marx. Certamente non a quell’operaio che Stakhanov è stato e a quello specifico, particolarissimo lavoro che da mane a sera lo inchiodava alla miniera di carbone.

Un dettaglio, questo, sfuggito a Tronti. Svuotata La libertà comunista della sua tensione etica, la compagnia di Della Volpe si riduce a quella della guida di un CAI filosofico e l’attraversamento a un giro panoramico tra l’uomo totale di Marx e l’individualismo platonico-cristiano e romantico di Rousseau. Che non ci porta da nessuna parte visto che, strada facendo, della libertà comunista si è persa la traccia.

Questa via filosofica – come falsa via che non porta da nessuna parte – è ripercorsa da Roggero sulla scia di Tronti anche per gli anni Cinquanta. Roggero li apre – siamo nel ’54, in piena guerra fredda – con l’inchiesta su “Comunismo e Occidente” promossa dalla rivista Nuovi Argomenti. I nomi sono noti, di filosofi (Bobbio, Della Volpe), di scrittori e critici letterari (Moravia, Carocci, Natoli) e, ovviamente, di politici (Togliatti). La contesa è a colpi di citazioni di classici, anche questi noti: Locke, Montesquieu, Rousseau, Marx e via cantando. Liberalismo o democrazia? Democrazia o socialismo? Socialismo o comunismo? Ma Della Volpe, ci dice Tronti – e lo riprende Roggero pari pari –  non è più lo stesso perché nel frattempo si è liberato della sua fase etica e ha in testa uno “schema di ricerca teorico-politica” affatto nuova. Lo si capisce dal suo Rousseau e Marx del ’56, che è pure l’anno in cui Chruščëv, ci ricorda, annuncia il tema della legalità socialista con la sua denuncia dei crimini di Stalin. Rousseau ha smesso di essere quell’antesignano dell’individualismo borghese e dei diritti dell’uomo di natura come individuo pre-sociale de La libertà comunista per diventare l’antesignano socialista del Marx maturo della Critica del programma di Gotha. La verità è che il superamento della fase etica ha significato per Della Volpe la cancellazione del soggetto operaio. Né più né meno. Allora, dov’è finito il docile Stakhanov? È una domanda che per gli anni Cinquanta Tronti e Roggero neppure si pongono.

Berlino ’53, Poznam ’56, Budapest ’56. E non stiamo parlando di scampoli di storia dell’operaio professionale dell’est. Parliamo di rivolte operaie a tutto campo. Questo solo per suggerire al padre nobile dell’operaismo e al suo non più giovane storico che è lì, in quelle rivolte, che avrebbero dovuto cacciare il loro sguardo per ritrovare la traccia perduta della libertà comunista.