Una serie di incontri tra il giornalista e lo scrittore Fabio Stassi ha suggellato, nell’arco degli ultimi anni, quella che più che un’autobiografia, rettifica Gianni Minà nel congedarsi dal lettore, “somiglia a una scacchiera o a un album fotografico (…) dentro c’è la mia vita o almeno il senso di come ho cercato di vivere”. E forse non è un caso che il libro si apra con una foto di gruppo, a dir poco, storica, non fosse per la fama dei quattro amici che affiancano Minà in una sera romana del 1982: Sergio Leone, Robert De Niro, Muhammad Ali e Gabriel García Márquez. È l’epoca di Blitz (1981-1984), premiato e indimenticato – per chi ai tempi non era più in fasce – programma domenicale condotto su Rai 2 dal giornalista torinese (dopo ben diciassette anni di precariato, finalmente in pianta stabile alla Rai, occorre aggiungere.) In quello scatto è immortalato il senso (e la storia) di tutta una carriera, ognuno di quei volti incarna già una passione, uno smagliante tranche de vie.
Anni Cinquanta. L’amore travolgente e ricambiato per lo sport (ciclismo, calcio poi la boxe) regalo del padre, di Giovanni Pische, eroe di guerra e atleta, e di Antonio Ghirelli, direttore di Tuttosport, un “maestro di scrittura”. Mentori del ventenne freelance, curioso eppure paziente: “per comprendere un atleta, per prima cosa andavo a parlare con chi gli viveva vicino (…) soprattutto sapevo ascoltare”. Lezione numero uno. Nino Benvenuti e Giulio Rinaldi, “The Greatest” Ali. Poi Pietro Mennea, Maradona… La lista è interminabile. Atleti, amici, compagni. Minà, classe 1932, è schivo e discreto. Con Ali, la prima volta, sbaglia da professionista. Si rifarà con il documentario Ali. Una storia americana (1975). “Per me un giornalista è un detective della diversità (…) scredita l’idiozia di qualsiasi integralismo e di qualsiasi razzismo.” Lezione numero due.
Anni Sessanta. Sport e politica. Qualche giorno dopo il massacro nella piazza delle Tre Culture, Minà è a Città del Messico per le Olimpiadi del 1968. A sue spese, çela va sans dire, mangiando quesadillas per risparmiare. In compagnia del fedele team – operatore, fonico, assistente operatore ed elettricista – filma tutto dalla finestra di un monolocale messogli a disposizione dall’amico Salvador Lutteroth, “il patriarca della boxe messicana”. Filma il pugno chiuso di Tommie Smith, record dei 200 metri, realizza un’intervista con il campione, leggendaria come molte altre.
Politica e musica. La bossa nova, l’“onda nuova”, nel 1968 travolge Roma e un documentarista già innamorato dell’America. Le loro “(…) dissonanze sembrano stonature. La loro musica è una consacrazione alla dissonanza (…)”: Vinícius De Moraes, Chico Buarque, Toquinho contrappuntano con note e parole le serate di un “cronista spiantato”, desafinado quanto basta per coglierne l’anima nei due documentari America Latina Pop e Folk e Que viva musica.
Ma la sua America, non danza solo sulle partiture di musicisti esuli e jazzisti eccentrici quali Dizzie Gillespie e Chet Baker. “La mia America è stata un continente di motel a poche lire (…) una terra di strade interminabili”: da Nord a Sud la vita di Minà è costellata di viaggi, poi diventati storie di scrittori dissidenti (in primis Luis Sepúlveda, “Lucho”, cui il libro è affettuosamente dedicato). Di uomini e donne – Hugo Chávez, Fidel Castro, il subcomandante Marcos, Rigoberta Menchú – icone di un continente, di un passato che non muore.
“Sono sempre stato attratto dalle quinte più che dalla scena. E credo che sia dietro il palcoscenico che un giornalista deve andare a ficcare il naso o ad aspettare la notizia.” Lezione numero tre. Le sue Interviste con la Storia non peccano della baldanzosa incompetenza di Oriana Fallaci; Minà non entra a gamba tesa nelle stanze del potere, non sfoggia mise militaresche. Garbo ed empatia sono già lezione di stile. Vecchia scuola. Disgraziatamente fuori moda. Come restare a bordo immagine, o negli spogliatoi dopo un match di boxe, invece che tra i vip sotto il ring.
Dopo la sua “uscita” dalla Rai (1996), sulle pagine del trimestrale Latinoamerica e tutti i Sud del mondo – di cui dal 1998 e per quindici anni è editore e direttore – Minà non ha smesso di dare voce, con sensibilità e impegno, al Sud America, ai suoi cantori e testimoni. Prima del disincanto che, fatale, artiglia i ricordi ma non la stoffa di un boxeur latino.