Gianni Celati, il senso di un rammarico

Due istantanee, un ricordo di Gianni Celati. Nel transito tra passato e presente, un'idea di cultura che accompagna lo scrittore recentemente scomparso nel racconto collettivo attraverso memoria, spaesamento, recupero, raffronto, perdita.

La

recente scomparsa di Gianni Celati stimola una riflessione sul significato più autentico che la sua traiettoria artistica e biografica ci ha lasciato, connesso all’idea stessa di attività culturale. Per svolgere il ragionamento partiremo da due articoli e da una foto.

Il primo pezzo, nella sua suggestività sideralmente lontano dai tanti “coccodrilli” alla memoria che hanno riempito la stampa e la rete, è apparso sul quotidiano online Globalist il 3 gennaio a firma del giornalista, scrittore e cineasta David Grieco, e reca un titolo ironicamente allusivo: “Ma quanto era figo il Pci?”. La foto che l’accompagna ritrae Celati appoggiato a un muretto con indosso una sgargiante camicia rossa, “contro una serie di bellissimi, eloquentissimi manifesti del Pci”. Grieco “condivide” la foto, inviatagli da un amico insegnante, con “una fitta negli occhi”. Non si tratta di una fotografia qualsiasi: l’autore è il grande artista Luigi Ghirri, scomparso a quarantanove anni nel 1992, e l’immagine viene dal Fondo Ghirri della Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia. “Siamo probabilmente a Mantova” scrive Grieco, “come indica la targa di una 500 posizionata ad arte nell’inquadratura, e nonostante l’impressionante nitidezza dell’immagine ci troviamo altrettanto probabilmente a metà degli anni Settanta, in pieno sogno di sospirata prevalenza del Pci nei confronti dell’immarcescibile Democrazia Cristiana. Siamo proprio lì, sulle spallucce del piccolo Enrico Berlinguer alla testa di una folla sterminata, con il vento in poppa, abbagliati dal sol dell’avvenire che verrà spento poco dopo dal rapimento e dall’uccisione di Aldo Moro. Quando ho visto questa foto ho pensato immediatamente cose semplici. La espongo senza giri di parole”.

Alle parole però, Grieco deve ricorrere per comunicare quel che gli preme, interrogando se stesso e il lettore sul potere di attrazione che quel Pci rappresentava per i giovani, sul suo essere immune da sensi di colpa, compreso da un’innocenza tanto commovente quanto pericolosa. Non è un discorso critico fondato sulla nostalgia, bensì sulla “rabbia”, “la rabbia per un partito dei giovani che non c’è più”. Nel suo articolo David Grieco si ferma sulla soglia del raffronto tra passato e presente, non trae le estreme conseguenze della mutazione intervenuta, evidentemente non era questo l’intento della rammemorazione di Celati. Tuttavia, nel rievocarne pittorescamente la figura Grieco ha scelto di contestualizzare un particolare momento storico e della biografia dello scrittore di Sondrio, e istituendo un paragone tra il passato e il presente compie un’operazione culturale: come eravamo – si parla di coloro che si riconoscono in quel determinato contesto politico e culturale, ovviamente –, come ci percepivamo, cosa ne è oggi di quel noi. E lo ha fatto, consapevolmente o meno, seguendo un metodo comunicativo messo a punto da Celati (e già in questo giace tutto il senso d’una continuità culturale, fondata sul raffronto, costruita nella dimensione temporale), ovvero il testo legato all’immagine.

Al termine della parabola di crescita creativa ed umana delle prove narrative degli anni Settanta (Comiche, Le avventure di Guizzardi, La banda dei sospiri, Il lunario del paradiso), Celati infatti si rinchiude in un silenzio letterario segnato dalla ricerca di una originalità espressiva e comunicativa, il cui approdo sarà il connubio fecondo tra parola e immagine, ben visibile nel deciso cambiamento stilistico intervenuto nella raccolta di racconti Narratori delle pianure (1985), caratterizzata da una prosa asciutta e scenografica, con testi che si presentano quasi come sapide didascalie di foto, stile lontanissimo dalla fabulazione intemperantemente comica e disorientante dei lavori precedenti. La rivoluzione formale è il frutto dell’incontro con Luigi Ghirri e i fotografi di Viaggio in Italia, grazie al quale Celati mise a punto l’idea di una letteratura rinnovata, capace di una maggiore densità comunicativa. Mutamento espressivo che tra l’altro gli permetterà di rielaborare formalmente la scrittura di viaggio, come accade in Verso la foce (1988), testi nati dalle escursioni lungo gli argini e fino alla foce del Po, in cui brillano le coordinate dell’arte e dell’individualità di Celati: memoria, spaesamento, recupero, raffronto, perdita; e in seguito in Avventure in Africa.

Il cambiamento di paradigma letterario coincide con la scelta di assecondare l’irrequietudine esistenziale che da sempre lo domina: Celati lascia l’Italia e l’insegnamento universitario e si dà a un nomadismo intimamente avvertito, riflesso del nomadismo culturale attestato dalla sua formazione e dal plurilinguismo della sua attività di traduzione e accademica: gira l’Europa, il continente americano, l’Africa. Contestualmente dà seguito agli esperimenti letterari basati sull’immagine trasformandosi in regista di documentari, con due lungometraggi non poco interessanti, Strada provinciale delle anime (1991) e Visioni di case che crollano (2002), seguendo sempre il filo rosso dei temi della memoria e del mutamento, con quella capacità di ascolto e di dialogo attestata da chi lo ha conosciuto: il cuore cioè della feconda e mai interrotta comunicazione tra presente e il passato, struttura profonda di ogni autentico progetto culturale.

L’altro articolo su Celati cui accennavo, uscito su la Repubblica il 4 gennaio, è di Marco Belpoliti. Per comunicare una particolare sensazione suscitatagli dalla figura dello scrittore scomparso, Belpoliti ricorre al concetto baudeleriano di correspondances: ha l’impressione che in Celati “immaginazione e realtà, scrittura e vita, si siano sovrapposte tra loro in un travaso reciproco e continuo”. È forse un discorso valido per ogni grande artista che ha vissuto con consapevole, faustiana intensità la propria parabola terrena, interpretandola come fruttuoso incontro-scontro con l’altro da sé. Questa considerazione sulla vita e l’opera di Gianni Celati suscita un doloroso rammarico: che negli artisti e negli intellettuali contemporanei il “travaso reciproco e continuo” tra “immaginazione e realtà, scrittura e vita” si sia interrotto, e con esso la capacità di trasmettere significato, senso autentico. E non per incapacità di questo o quell’artista, ma per l’epocale mutamento intervenuto nel mondo odierno.

 

Per quel suo fervore conoscitivo, l’acuto spirito d’osservazione, la permeabilità del sentire, l’affastellare avventure e mestieri, il costante confronto con mondi, culture, individui diversi, Celati ha sviluppato e affinato uno sguardo acuto, da outsider, che gli ha permesso di uscire da quel borgo natio le cui fattezze non di rado assume la nostra cultura nazionale. Grazie all’inesausto vagare fisico e mentale Celati ha accumulato un’enorme esperienza, concretamente umana, e ha saputo comunicarla, tramandarla, in una perpetua, disperata ricerca di senso. Al contrario, nella vita digitale e globalizzata, virtuale e illusoria in cui ci dibattiamo noi donne e uomini dell’oggi, nella realtà rarefatta di un’infosfera caotica e inattingibile che determina una perdita di materialità dell’esperienza, incisa sui corpi oltre che nelle menti: cosa rimane da comunicare? Cosa rimane da trasmettere nella sparizione della diversità, nella virtualizzazione esperenziale, nell’egolatrica teatralità deprivata di senso, nell’arte come nella vita? Il brano che segue, tratto da Conversazioni del vento volatore (“L’avventura verso la fine del XX secolo”), mirabile sintesi di quanto scrive Belpoliti, è un ulteriore chiarimento di quel che qui s’intende:

Nella strada che scendeva dalla collina verso la casa di legno dove abitavo, c’erano bar o ristoranti con cartelli che vietavano l’ingresso a chi non portasse scarpe. In quei cartelli si riassumeva il contrasto tra il nuovo patriarcalismo e i nuovi atteggiamenti nelle acropoli del sapere, come il campus della Cornell University, dove ero sbarcato. Qui vedevo la messinscena di uno stato edenico alla portata di tutti. Studenti e studentesse ostentavano un’assoluta indipendenza dell’individuo, che sfociava nelle forme più teatrali d’individualismo. Vedevo un tipo di ostentazione di sé, della propria personalità, che sarà poi lo stile di tutte le forme spettacolari […]

Il giro di boa è stato nel 1979, quando sono tornato in America, e ho rivisto vecchi amici con cui avevo vissuto in uno stretto sodalizio. Uno in particolare, quando sono andato a casa sua, a New York, mi è parso irriconoscibile. Dov’era andato a finire il severo critico antiborghese filo-lacaniano? I suoi libri per fare carriera erano disposti sui mobili, e aperti di taglio in modo che ovunque leggevi i titoli e il nome dell’autore (il suo). In quei pochi anni era avvenuto un cambiamento colossale nella vita americana. Era venuta l’epoca dell’imperativo categorico: “Smile””! […] Aumentava il fascino della ricchezza, con stili di lusso inediti, all’europea, nuove macchine, case, negri pestati dalla polizia. Nei ghetti neri da Harlem fino a South Chicago, le case bruciavano a crescevano i mucchi di spazzatura senza che nessuno intervenisse […] Leggevo nuovi romanzi e li buttavo via quasi subito”.

Un lacerante rammarico, dunque, che tuttavia si dissolve davanti a queste parole, capaci di riassumere il significato più profondo dell’attività culturale e artistica, dell’esistenza: leggere il passato come padre dell’oggi, imparare a istituire raffronti, analizzare differenze, cogliere perdite e magari acquisti, apprendere a orientarsi in una continuità storica fatta di radicali mutazioni e inossidabili tradizioni. In breve, cercare connessioni, acquisire quel principio dell’only connect su cui si basa l’arte del grande romanziere inglese Edward M. Forster – e in tutto ciò, saper anche riconoscere e affrontare il fallimento di ideali intimamente vissuti.

L’opera, la vita di Gianni Celati appaiono dunque l’incarnazione di quell’alto ideale umanistico che vivifica coloro che malgrado tutto si dannano nella ricerca di significato, d’un senso collettivo e comunitario, dell’ininterrotto legame tra passato e presente. La fiamma sempre viva di quell’ideale, che anima ogni autentico progetto di attività culturale, è il più grande lascito di Gianni Celati ai posteri.