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ianni Celati ha speso senza risparmio il suo talento. Ha scritto romanzi, racconti, resoconti di viaggio, una sceneggiatura cinematografica, saggi critici e traduzioni. Ma il recinto della prosa gli è risultato stretto e così è stato anche regista di documentari, conferenziere, animatore di riviste e insegnante (Enrico Palandri, Claudio Piersanti, Pier Vittorio Tondelli e Andrea Pazienza sono stati suoi studenti). Pensare di ricordarla tutta, una figura così complessa, vale a dire seguendola in ognuna delle tante imprese in cui ha impegnato la sua creatività, è un’illusione, specialmente se lo spazio è quello di un articolo. Ha più senso allora concentrarsi su una di queste imprese, per la precisione i Narratori delle pianure, per scoprirvi l’energia e l’ingegno di Celati al lavoro, così da farne un prodotto esemplare da cui dedurre qualche notizia significativa sul suo creatore. Il risultato sperato sarà di vedere Celati all’opera, che è poi il miglior modo di ricordarlo.
Con Narratori delle pianure, pubblicato nel 1985 da Feltrinelli, Celati si allontana dal comico, quello delle Comiche e delle Avventure di Guizzardi, usciti per Einaudi rispettivamente nel 1971 e 1972, e posiziona la sua scrittura all’interno dell’oralità diffusa. Ma i Narratori sono soprattutto un libro plasmato da un concetto chiave nella riflessione filosofica di Celati, quello che sia l’archeologia e non la storia lo strumento privilegiato per entrare in contatto con il passato. Come spiegato da Celati nel “Bazar archeologico”, un articolo apparso sulla rivista il verri nel 1975, mentre l’archeologia colleziona frammenti, unicità, la storia non è altro che tempo omogeneo destinato a risolversi nel suo fine, la superiore civiltà del presente. L’archeologia, proprio come Celati fa con le voci narranti dei Narratori, disloca nello spazio degli oggetti che sarebbero altrimenti esclusi dalla memoria e dalla tradizione. All’interno dell’opera di Celati, infine, i Narratori si distaccano in quanto testo che dà l’avvio a un ciclo narrativo dedicato alla valle del Po. Sarà in realtà una trilogia, destinata a completarsi con Quattro novelle sulle apparenze (1987) e Verso la foce (1989), due collezioni di racconti e scritture situati in un contesto padano, con l’eccezione dell’ultima delle Quattro novelle ambientata a Parigi, entrambi pubblicati da Feltrinelli.
Nei Narratori sono poi al lavoro elementi che diverranno tipici della scrittura di Celati anche al di là della fase padana: la “letteratura come accumulo di roba sparsa” (titolo di un’intervista del 2007 con Marco Belpoliti e Andrea Cortellessa, apparsa sulla rivista Riga), la necessità che hanno gli umani di narrare per darsi l’illusione che le cose siano fra di loro legate da rapporti ispirati alla causalità, e l’esistenza di un istinto narrativo spinozianamente orientato al dialogo con gli altri. Premessa dei Narratori, infine, è che il narrare sia una pratica che procede sul filo della temporalità, fattore che lo distingue in maniera radicale da discorsi disciplinari e scientifici tesi a produrre proposizioni valide al di là di ogni contesto temporale. Trasformare in narrato tutto questo consistente retroterra culturale, come Celati ha fatto, basterebbe da solo a fare dei Narratori un libro di tutto rispetto e a estendere questo giudizio a chi l’ha scritto. Ma i Narratori sono un testo unico in quanto la loro resa va al di là delle fondamenta filosofiche che lo sorreggono. Sono un prodotto che eccede la materia prima che è stata immesse nella fornace narrativa. Questo risultato si spiega con il particolare rapporto che i Narratori intrattengono, ironicamente, proprio con la storia, il discorso ripudiato da Celati a causa del suo ridurre il tempo a piatta distesa destinata a riscattarsi solo al momento di congiungersi col presente.
Se visti come libro che ci parla di storia al di là delle intenzioni del suo autore, allora i Narratori diventano un testo straordinario, capace di guardare alle vicende degli umani da due punti di vista, complementari, contemporanei e opposti. Un testo strabico dunque, che guarda con un occhio al passato e con l’altro al futuro, ma sempre con uguale efficacia. Il racconto del territorio come fonte di identità è il risultato dallo sguardo all’indietro. Nei Narratori, sia le voci narranti sia i personaggi da queste evocati sono infatti sempre situati. Non possiedono, appunto, un nome ma un appellativo geografico: la ragazza di Sermide, uno studente di Parma, un radioamatore di Gallarate e via dicendo. Che fissare delle voci sul territorio sia una delle preoccupazioni chiave dei Narratori ce lo dice la carta geografica della pianura padana posta in apertura del testo, subito prima che le storie vere e proprie inizino a dipanarsi. È una mappa sia della valle del Po sia della collezione dei racconti. Questi procedono infatti da Gallarate, la prima storia, fino alla foce del Po, l’ultima. Lo stesso diagramma è esposto sulla cartina, in cui la località sul vertice sinistro della mappa è Gallarate e l’area all’estremo opposto è il delta del fiume. Se narrazioni e carta geografica si sovrappongono, allora quelle disegnano il territorio tanto quanto questa lo racconta. Di nuovo, la territorialità è parte costituente del raccontare. Ma come si capirà fra poco, tale radicamento territoriale, ovvero l’idea che voci e personaggi traggano identità dai luoghi, è roba del passato. E tale appare anche l’arte del racconto. In un saggio del 2008, “Il narrare come attività pratica”, Celati sostiene che narrare è un mestiere che viene padroneggiato appieno dagli incolti ma che sfugge agli scolarizzati. Nelle condizioni della valle del Po degli anni Ottanta del secolo scorso, di conseguenza, i narratori appartengono al mondo di ieri.
Ma nei Narratori c’è posto a pieno diritto per la modernità. Solo che questa si dà come precisa inversione del rapporto fra individuo e territorio su cui si fonda l’identità dei personaggi. Il paesaggio che fa da sfondo ai Narratori è quello della città diffusa, una distesa omogenea di supermercati, parcheggi, capannoni, villette “geometrili”, come le chiama Celati, superstrade e discariche. È una sconfinata periferia priva di differenze, dove nessuna identità può nascere dal rapporto coi luoghi perché questi hanno perso la loro unicità. Nei Narratori – mentre lo sguardo che si volge al passato, all’innesto dell’industria sul mondo contadino, coglie il rapporto fra identità e territorio – l’occhio fissato sul futuro coglie invece il nesso fra distruzione del concetto di luogo e passaggio al post-industriale. Guarda, in altre parole, al mondo di oggi, quello in cui in autobus o in treno nessuno guarda più fuori dal finestrino, non solo perché ha davanti a sé uno schermo da fissare, ma anche perché fuori non c’è più niente che valga la pena di esser visto. Se il trasferimento delle nostre vite sul software è riuscito così bene è anche perché a compiere quel passaggio eravamo già belli e pronti. Celati è riuscito a mettere in un libro solo (di 150 pagine) tutto questo. Non ci ha infilato le veglie nelle stalle e i telefonini, ma ha raccontato il paesaggio che dalle prime veniva fuori e nei secondi sarebbe sfociato. Con sintesi mirabile ci ha quindi presentato il passaggio storico chiave del secondo Novecento, ci ha messo davanti la storia. Risultato stupefacente per uno scrittore che nella storia in quanto “notizia ragionata dei fatti”, come scriveva Manzoni, non crede; né in generale crede alla possibilità di attribuire ragioni alle vicende che ci coinvolgono su questa Terra. Approccio questo che è causa di serio imbarazzo quando Celati la storia si trova a doverla raccontare per davvero e non solo a consegnarcela come risultato a sorpresa della sua maestría narrativa. Mi riferisco a “Un celebre occupatore di città”, uno dei trenta racconti dei Narratori. È la storia di Italo Balbo, mai nominato ma identificabile senza ombra di dubbio nonostante che nemmeno la sua “organizzazione” abbia un nome, e delle sue tante occupazioni di città; finché arriva a P. (Parma) e si trova davanti a un capo sindacalista (Guido Picelli, anch’egli non nominato) che guida la rivolta dei quartieri al di là del fiume. Balbo non potrà passare il fiume e affrontare il sindacalista perché la sua organizzazione è “mobilitata per uno scopo più importante” (marcia su Roma). Qui il problema non è tanto l’anonimato delle figure storiche – non c’è problema ad identificarle – ma il modo del racconto. Narrati come frammenti non spiegabili, perché appunto la loro unicità archeologica impedisce di inserirli in insiemi più grandi da cui ricavino senso, Balbo e Picelli diventano due tipi curiosi, vestiti più o meno allo stesso modo e in realtà indistinguibili, divisi solo dal fatto che uno vuole occupare una certa città e l’altro non è d’accordo.
L’esempio di Balbo e Picelli chiarisce come, in forza dell’approccio puramente percettivo che ne guida le narrazioni, i Narratori siano un libro antistorico. Eppure ci raccontano, lo si è appena visto, uno snodo storico decisivo, quello che ha piegato la storia della seconda metà del Novecento nella direzione in cui stiamo marciando ancora oggi. I Narratori si configurano dunque come un testo antistorico che tuttavia sa cogliere la storia. Con tutta probabilità lo fa meglio di tanti libri storici. Un bel rompicapo. Se ne esce riflettendo sul fatto che i cattivi libri di storia sono scritti non per scoprire il senso dei fatti del passato ma per dimostrare tesi sul presente. Non sono opera di detective ma di propagandisti. La scrittura antistorica di Celati ha il merito di rifiutare ogni ragione precostituita e di aprirsi così alla ricezione. Questo, sia chiaro, quando non si trova a misurarsi con la storia, come nel caso dell’Oltretorrente. Ma a parte quel caso limite, il sensibilissimo sistema percettivo di Celati, nella sua totale apertura al mondo, mette a disposizione di chi legga i Narratori una miniera di dati che narrazioni più cerebrali avrebbero soffocato di spiegazioni. Poi resta da tentare di leggerne il senso, come ho fatto io, l’umile scritturale che cerca di dare un ordine alle tracce lasciate dall’artista. Ma se questo non fosse stato un maestro, quello avrebbe fatto ben poca strada.