Una produzione culturale che si stringe sempre di più attorno al calendario degli anniversari non può che mostrare una vena necrofila o, d’altra parte, l’imbarazzo di chi si ostina a cercare una giustificazione esterna e contingente per un’attività culturale magari stanca e priva, perlopiù, di prospettive di rinnovamento. Del tutto opposto a questa tendenza – facilmente verificabile per tutti quegli autori che rientrano già, o possono rientrare facilmente, in un determinato canone – sembra essere, per la sua radicalità di attitudine e orientamento, il centenario della nascita di Gianni Bosio (1923-1971).
L’anniversario è stato già ricordato e discusso per tutto l’anno in diverse sedi – per iniziativa, soprattutto, di quell’Istituto Ernesto De Martino fondato, nel 1966, da Alberto Maria Cirese e dallo stesso Bosio, ma anche di Alessandro Portelli e di molti altri studiosi e studiose, di varie generazioni (come ad esempio Mariamargherita Scotti, in questa puntata di Fahrenheit del 24 ottobre scorso).
Una delle ultime iniziative, in ordine di tempo, è la mostra “Racconti, voci e canti. Ascoltare Gianni Bosio a cento anni dalla nascita”, ospitata presso l’Istituto Ernesto De Martino di Sesto Fiorentino dal 28 novembre al 10 dicembre 2023. Già a partire dal titolo – “Racconti, voci e canti” – si potrebbe dire molto di quella che è stata la vita e la ricerca sul campo dell’intellettuale Bosio, nato cento anni fa ad Acquanegra sul Chiese, al confine tra le province di Mantova e Cremona: i racconti della comunità contadina, tra “piccola” e “grande storia” (come nel postumo Il trattore ad Acquanegra, a cura di Cesare Bermani, pubblicato a Bari, da De Donato, nel 1981), il dialogo con le voci del suo tempo (come nel dialogo epistolare con Roberto Leydi, che costituisce il nerbo dell’antologia di scritti L’intellettuale rovesciato) e, soprattutto, l’inchiesta sul canto sociale, come espressione-chiave delle culture popolari e subalterne. Rimandiamo la discussione di questi temi alla conclusione, con l’intervista a Sandro Portelli, che ringraziamo molto per la generosa disponibilità.
Tuttavia, c’è almeno un tratto ancora dell’operato di Bosio che merita grande approfondimento, insieme all’inchiesta più o meno radicata nell’etnomusicologia e le varie attività dell’organizzatore di cultura (dal titolo di uno dei pochi volumi editi in vita da Bosio, Giornale di un organizzatore di cultura, per le Edizioni Avanti!, delle quali è stato direttore). È il versante più squisitamente politico – se poi può esistere una linea di confine tra cultura e politica, per chi ha assiduamente frequentato entrambi i territori, senza mai ricorrere a distinzioni o gerarchizzazioni preliminari e pregiudiziali – così come lo racconta, ad esempio, Valerio Strinati, ne Le barricate e il Palazzo. Pietro Nenni e il socialismo italiano nel dialogo con Gianni Bosio (Editpress, 2022).
Come preannunciato dal titolo, buona parte del volume è dedicato al dialogo tra Bosio e Nenni, testimoniato dall’intervista a Nenni del 19 febbraio 1970 e da uno scambio epistolare di durata ventennale, entrambi riportati in appendice al volume. Si tratta, avverte subito Strinati, del «peculiare rapporto tra due figure del socialismo italiano tra loro molto distanti, non solo per il quarto di secolo e più che li separava (Nenni era nato il 9 febbraio 1891, Bosio il 20 ottobre 1923) e per la conseguente diversità di esperienza e di formazione, ma anche per una differenza politica di non poco conto, se si considera che, al momento dell’intervista [del 19 febbraio 1970], Bosio aveva abbandonato il PSI da circa otto anni, in dissenso con la decisione del suo partito di dare vita a un’alleanza di governo con la DC».
Tuttavia, non si tratta soltanto di ripercorrere i passi di un pure articolatissimo e complesso pas de deux, bensì di tornare, più in generale, a delineare una costellazione intellettuale molto vasta, collocabile in una posizione liminare rispetto al Partito Socialista Italiano e capace di reggere per decenni il confronto dialettico con la cultura di partito. Si sta parlando – come sintetizza, sempre molto correttamente, Strinati – di quei «vivaci gruppi del dissenso culturale di area socialista: non solo il gruppo delle Edizioni Avanti! e ancor prima di “Movimento operaio” ma anche quelli riuniti attorno a riviste come “Discussioni” (Delfino Insolera, Roberto Guiducci, Renato Solmi e altri), “Ragionamenti” (Franco Fortini, Luciano Amodio, Sergio Caprioglio e altri), “Opinione” (Roberto Guiducci), per non parlare di dirigenti come Lelio Basso o Raniero Panzieri che, pur lungo traiettorie tra loro diverse e in alcuni casi contrastanti, nella situazione messa in moto con la critica rivolta da Nenni all’impostazione del processo di destalinizzazione avviato con il XX Congresso del PCUS, vedevano aprirsi opportunità impreviste di iniziativa e di più libera discussione».
Formatosi alla scuola del “luxemburghista” Lelio Basso e successivamente direttore di “Movimento Operaio” fino alla rottura con Feltrinelli (1949-1952), Bosio non può che rientrare a pieno titolo in questa costellazione. D’altra parte, la lente di ingrandimento posta sul rapporto tra Bosio e Nenni, foriera di importantissimi approfondimenti, lascia inevitabilmente ai margini del discorso le possibili consonanze tra il lavoro di Bosio e quello, ad esempio, di un altro intellettuale nato a Cremona, più o meno coetaneo di Bosio, ma dai complessi rapporti con il Partito Comunista, anziché con il Partito Socialista, come Danilo Montaldi (1929-1975). L’interesse di entrambi per le metodologie dell’inchiesta, nonché per i risvolti politici delle indagini sociali, troverà di lì a poco ulteriore approfondimento con la “conricerca”, postulata da Romano Alquati proprio a partire dall’esperienza di quest’ultimo con il gruppo dei cosiddetti “ricercatori scalzi” cremonesi, e successivamente sviluppata in un ambito più chiaramente operaista.
Del resto, pur essendoci queste consonanze tra le figure di Bosio, di Montaldi e poi di Alquati, la distanza del percorso di Bosio dall’operaismo è chiara e Strinati, nella stessa pagina in cui evoca, en passant, la figura di Montaldi, lo sottolinea in modo cristallino: «Mentre Panzieri (almeno inizialmente) e Mario Tronti accentuavano l’esigenza di una iniziativa al di fuori dei partiti tradizionali e rivolta a sostenere il protagonismo operaio che si andava manifestando soprattutto nelle fabbriche del Nord, per Bosio e Della Mea si poneva il problema di non perdere i contatti con le realtà di base che ancora largamente si riconoscevano nelle organizzazioni sindacali e di partito: la questione dell’organizzazione della cultura e della ricerca delle manifestazioni dell’antagonismo di classe in un contesto di accelerate trasformazioni tecnologiche e sociali si poneva in termini tali da imporre la necessità di muoversi all’interno della struttura “istituzionale” del movimento operaio, pur contestandone i conformismi e i ritardi nell’analisi e nella messa a punto di strategie realmente innovative, secondo un’esigenza che si era affermata anche per effetto all’intenso lavoro di inchiesta che si era svolto e si andava ancora svolgendo all’inizio degli anni Sessanta».
In effetti, lo scambio tra Bosio e Nenni intorno al quale ruota il prezioso saggio di Strinati rappresenta in modo paradigmatico il rapporto dialettico tra chi svolge un lavoro intellettuale e le strutture “istituzionali”, ossia i corpi intermedi – rapporto destinato a tramontare non solo per la scomparsa dei singoli individui, ma anche per il generalizzato declino degli stessi corpi intermedi. Quest’ultimo, tuttavia, per quanto ormai consolidato e aggravato, è un declino che ancora oggi fa problema: la breve vita di Bosio risulta dunque essere la testimonianza di un secolo non tanto “breve”, come lo intende la vulgata, quanto “lungo”, perché capace di fungere da punto di riferimento ancora oggi, nel tentativo di riaprire alcune questioni insolute nell’esercizio del lavoro intellettuale. Bosio, infatti, come Montaldi, non rappresenta soltanto la necessità dell’inchiesta come momento di esplorazione culturale e politica del rapporto con le classi popolari e subalterne, ma anche l’instaurazione di una dialettica tra questo tipo di lavoro intellettuale e le strutture politiche e istituzionali esistenti, con l’apertura di spazi e interrogativi che – pure a distanza di molto tempo dal contesto analizzato, e in circostanze completamente differenti – possono ancora risuonare nel presente, come dimostra anche l’intervista con Sandro Portelli riportata qui di seguito.
Lorenzo Mari] Partirei dall’Intellettuale rovesciato, la raccolta di scritti di Gianni Bosio che forse ne illustra meglio il lavoro, sia per l’oggetto di studio – il canto sociale – sia per la sua storia editoriale. Una prima versione, infatti, appare come quaderno ciclostilato della Lega di Cultura di Piadena nel 1967, per poi arrivare nel corso degli anni a quella che è generalmente indicata come la prima edizione (per le “Edizioni Bella Ciao” di Milano, nel 1975) qualche anno dopo la morte dell’autore. Chi è “l’intellettuale rovesciato” e quali valenze può assumere oggi il riferimento a quel tipo di approccio?
[Alessandro Portelli] Mi pare un approccio tuttora necessario, soprattutto per quanto riguarda il “rovesciamento”, ossia una posizione intellettuale che non si ritiene depositaria di un sapere da impartire dall’alto in basso – qualcosa di ormai inimmaginabile, nella complessità che caratterizza le società contemporanee! – e che parte invece dall’ascolto delle istanze politiche e culturali delle classi subalterne.
In questo senso, non si tratta semplicemente di una generica disposizione all’ascolto, ma anche dell’applicazione di un metodo, che è l’altro grande pilastro dell’Intellettuale rovesciato. Bosio insegna la necessità di operare dati alla mano, con una spiccata attenzione critica per il dettaglio: è soltanto così che si passa dalla fase dell’ascolto all’utilizzo di un metodo che consente, infine, di rilanciare la riflessione verso un livello sempre più alto.
Occorre poi ricordare come Bosio si sia specificamente impegnato nello studio delle culture popolari e subalterne, e quindi non saprei dire se il suo approccio sia utilizzabile e utilizzato anche in altri campi. Forse oggi è chi si occupa di storia orale – un’altra disciplina che si è sviluppata tantissimo nel corso dei decenni – a poter sperimentare qualcosa di affine.
Su un altro livello, fra i tanti possibili riferimenti, penso all’opera di Marco d’Eramo, un intellettuale per il quale è altrettanto fondamentale il ruolo dell’inchiesta. Del resto, Bosio avrebbe sicuramente concordato con la massima di Mao: “Chi non ha fatto inchieste non ha diritto di parlare”.
Ecco, in generale, la posizione dell’Intellettuale rovesciato mi sembra ancora utile in negativo, come antidoto alla tentazione, sempre più pressante, della cosiddetta “tuttologia”: Bosio si collocava agli antipodi di questo rischio.
[LM] Come si diceva, Gianni Bosio è stata una figura fondamentale per l’approfondimento e la vitalità dello studio delle culture popolari. Che influenza ha avuto l’opera e l’attività di Bosio nel suo lavoro, che oggi è altrettanto importante, in questo campo?
[AP] Un altro principio fondamentale di Bosio era quello di operare “dentro alla storia, non dentro al folklore”: non tanto andare verso il passato, schematizzandone e cristallizzandone l’eredità, quanto avere una consapevolezza storica orientata verso il proprio presente e futuro. Non è un caso che l’Istituto De Martino, fondato da Bosio e Cirese, si sia sempre chiamato Istituto Ernesto de Martino per la Conoscenza Critica e la Presenza Alternativa del Mondo Popolare e Proletario, dove quella presenza alternativa ha un ruolo fondamentale – incardinato, appunto, nella storia.
La lontananza da tutto ciò che la parola “folklore” può evocare si misura anche nel lavoro stesso di Bosio, attento ad alcune forme non “autentiche”, da un punto di vista squisitamente etnomusicologico, come il canto sociale e il canto anarchico – considerate sempre, in ogni caso, dentro l’abito della storia popolare.
Venendo a oggi, si registra una sempre maggiore difficoltà a riconoscere i soggetti e le pratiche della cultura popolare, anche se permane certamente una linea di distinzione – più che una separatezza – tra cultura popolare e cultura di massa (grande contenitore in cui ormai ricadono non soltanto i media tradizionali, ma anche i social). Se la domanda che si impone è: “Di chi stiamo parlando?”, si sta peraltro verificando una polarizzazione, nella ricerca sulla cultura popolare, tra chi si impegna in una ricerca arcaicizzante e patrimonializzante sulle tradizioni e chi si predispone all’ascolto caratteristico della storia orale, ma ancora non sembra che si possa trovare un punto di sintesi abbastanza solido tra queste opzioni.
L’interrogativo principale, come dicevo, riguarda i caratteri che assume oggi la subalternità. Una delle risposte più chiare viene dalle culture popolari migranti: presentano forme di stratificazione culturale ancora differenti e specifiche e, per questo motivo, vanno indagate con cura e attenzione.
[LM] È stata già citata, ma conviene ritornarci, in funzione della sua longevità e resistenza: qual è stato e qual è il ruolo della Lega di Cultura di Piadena?
[AP] La Lega di Cultura di Piadena ha sempre svolto un’azione politica in quanto culturale e culturale in quanto politica, mostrando l’inscindibilità di questo nesso. Nel corso degli anni, la Lega di Cultura ha avuto poi la capacità di rinnovarsi profondamente, identificandosi sicuramente nella lunghissima attività dei suoi storici promotori, come Giuseppe Morandi, il “Micio” Azzali e tanti altri, ma anche con molti nuovi apporti. È stata, ad esempio, fra le prime realtà a creare lo spazio e a promuovere quell’incontro con le culture popolari migranti del quale abbiamo appena parlato.
[LM] Parlando invece un’esperienza più recente, nell’estate 2023 si è tenuta la terza edizione del Festival delle Culture Popolari di Collelongo, organizzato dal Circolo Gianni Bosio di Roma. Come si inserisce in questo panorama il festival di Collelongo?
[AP] In tutte e tre le edizioni, si è verificato un incontro interessante fra tante esperienze diverse. In origine, il Festival nasce da un’iniziativa delle persone del luogo, successivamente accolta dal Circolo Gianni Bosio di Roma e diventata realtà proprio in quel territorio della provincia aquilana. Il coinvolgimento degli abitanti è andato aumentando nel tempo, fino al successo dell’ultima edizione, con la partecipazione, ad esempio, delle scuole locali. Il Festival si occupa di alcune tematiche che stanno diventando sempre più pressanti: la crisi della pastorizia, il declino demografico dell’Italia montana e, in generale, tutte le questioni che riguardano lo stato di salute delle aree interne del Paese. Nel corso delle tre edizioni ho imparato molto su questi temi, grazie all’incontro di esperienze e pratiche differenti e alla pratica di quell’ascolto, sempre sottolineato da Bosio, che è capace di produrre comune arricchimento.