È una storia piuttosto complicata quella che ci racconta Gianluca Peciola nel suo La linea del silenzio. È una storia ambientata nella Roma degli anni Settanta quando molti giovani erano impegnati nella politica con il desiderio e lo scopo di cambiare il mondo e migliorarlo. La storia di un quartiere di periferia, Quarto Miglio, abitato da ricchi e da poveri, la storia di un bambino che vive in una famiglia piuttosto scombinata eppure coesa, forte e attiva perché le sue relazioni all’interno sono cementate da grande affetto e da vero amore. Una famiglia di tradizione comunista, omofoba e moralista, ma capace di grandi slanci e di una certa intelligenza politica. Seguiremo il bambino crescere e questo servirà al lettore per seguire lo sviluppo della storia.
Come ci annuncia il titolo del libro, il silenzio è il tratto saliente che all’inizio caratterizza le relazioni tra le persone. Il giovane protagonista, infatti, non ha il padre. Porta il cognome materno e condivide la vita quotidiana con due fratelli – Laura e Sandro – che proprio tanto fratelli non sono. Su questa curiosa situazione, è stato imposto il silenzio e nessuno sembra voler obiettare. C’è poi il silenzio dello zio Angelo che a tutti gli effetti interpreta la funzione di pater familias (in mancanza del padre vero) ascoltato e rispettato anche se si è esprime spesso nei toni bruschi di quel romanesco reso celebre da tanto cinema popolare. Infine c’è il silenzio imposto sulla “cugina” Anna Laura che vive lontano da casa e che, ogni tanto, viene a trovare la famiglia e in particolare Gianluca, il protagonista, a cui è molto legata. Anna Laura si guarda sempre intorno, circospetta, e poi scappa via. Spesso è accompagnata. Mentre con lo sguardo il piccolo ragazzo segue la cugina che va via precipitosamente, si accorge che ha una pistola.
Da questo dettaglio, da questa svista inizia un processo di disvelamento che ci farà raggiungere la verità: la cugina è Anna Laura Braghetti, nota carceriera di Aldo Moro: gli cucinava e si occupava dell’occorrente nella vita quotidiana. Anna Laura è una figura di spicco della colonna romana delle Brigate Rosse. In questo contesto non è difficile pensare alla nascita di fantasmi. Il vuoto lasciato dagli altri viene riempito dalle fantasie di un adolescente e riguardano il padre e la cugina lontana, fina che non si scopre che la cugina in realtà è la sorella stessa di Gianluca. Si avvicendano così fatti concreti, spesso dolenti e altre volte teneri e affettuosi. Ma non c’è letteratura nel libro di Peciola, quasi nulla è inventato. È per questo che della letteratura non c’è bisogno. Ciò nonostante il racconto mantiene una sua forza e sfiora le caratteristiche del romanzo. Prevale la cronaca, come di qualcuno che ha un impellente bisogno di raccontare, di dire come sono andate le cose e non ha tempo e non ha voglia di lavorare di intarsi e ceselli. Manca il cosiddetto “climax” perché gli eventi si susseguono gli uni con gli altri, in maniera veloce e serrata.
I luoghi del racconto sono pochi e danno l’impressione di trovarsi nel teatro di una grande partita a scacchi: ogni personaggio è collocato nella propria casella. La famiglia di Gianluca Peciola è raccontata sempre dentro casa, quando pranza o cena e guarda la televisione. Il “fuori” è costituito solo dalla scuola e dalla parrocchia. I luoghi di Anna Laura Braghetti sono il carcere di Volterra, duro e difficile, quello di Latina, piccolo e male organizzato e, infine il grande edificio di Rebibbia dove i colloqui si possono tenere più agevolmente e dove lei può aspettare e seguire il processo. Tutto il resto è un ottovolante, tra sinceri e toccanti momenti di tenerezza e il racconto di agguati e sparatorie. Peciola rischia molto con questo libro, il racconto avrebbe potuto assumere i connotati di un romanzo d’azione, avvincente ma vacuo. Invece ci troviamo tra le mani un libro di storia e di cronaca in cui gli esseri umani escono finalmente dalle pagine dei giornali e acquistano di nuovo una dimensione che tutti possono capire, specialmente i lettori non prevenuti.