“Perché ci sia autobiografia […] bisogna che ci sia identità fra l’autore, il narratore e il personaggio” [1]. Un’identità che solo il nome proprio può garantire. Nel caso di Ricordi a piede libero è proprio quel nome e quel cognome, quel “Gianfranco Pancino”, a garantire che il cosiddetto patto autobiografico sia in spirito e verità, condizione necessaria perché il lettore entri di buon grado nel racconto e si immerga in esso.
In verità in questo caso le storie sono tre perché tre sono le vite che Gianfranco Pancino racconta di aver vissuto: quella in sintonia col movimento rivoluzionario dell’Autonomia operaia degli anni ’70, quella degli anni dell’esilio e quella, poi, dell’avventura della sua attività di ricerca scientifica. Ma, dice espressamente: la mia storia non è la storia del movimento rivoluzionario degli anni ’70 in Italia, non è la storia dell’Autonomia operaia, non è la storia di un’avventura scientifica, è la mia [corsivo nostro] storia, anzi quel che me ne resta nel ricordo. E due righe sopra aveva parlato delle tre vite diverse, ognuna vissuta intensamente [corsivo nostro]: ”la vita politica, la più entusiasmante; la vita del fuggitivo, sdoppiata e avventurosa; e la vita rifondata dello scienziato”. Certamente non cancella dalla sua vita la rivoluzione, come non le sta togliendo l’esperienza dell’esilio e della ricerca. Se lo facesse, della sua vita rimarrebbe un resto che non sarebbe neppure un resto ma solo un vuoto a perdere. Ma non sta neanche sovrapponendo i due piani – lo storico e il personale.
Nel racconto autobiografico c’è sempre, tra le altre insidie, il rischio della commistione dei due piani con il risultato che la vita individuale venga assorbita dalla storia sociale e politica. Non accade con Ricordi a piede libero. Neppure il ricordo, che in un atto di immediata visione provvede a ricomporre in unità le sue tre storie, confonderà i due piani.
Da qualche tempo la generazione di Pancino è afflitta da un eccesso di senso storico, di ossessione della memoria. Il catalogo dell’editrice Derive Approdi è lì a dimostrarlo. Tredici volumi solo sull’Autonomia e in aggiunta quelli sulle organizzazioni combattenti. Per non parlare della ristampa delle riviste di quel decennio. E poi l’attivazione degli archivi. A cercare, c’è solo l’imbarazzo della scelta. È indubbio che questa generazione stia soffrendo di una malattia storica i cui sintomi sono l’eccessivo legame con quel passato e l’atrofizzazione di ogni elemento creativo e attivo, senza più stimoli a creare nuova storia. Spettatrice rassegnata del corso inarrestabile degli eventi.
Non ne sono afflitti i giovani, accusati per la loro assenza di memoria storica di essere, per ben che vada, improvvidi e sprovveduti. Ma a guardar bene, per i nostri vecchi si tratta di un’impotenza per sovrabbondanza di storia, per i giovani della loro salvezza. Forse aveva ragione Nietzsche: ogni tanto la vita ha bisogno di oblio.
L’autobiografia come genere a sé non è vero che garantisce automaticamente l’immedesimazione sincera. Nel racconto di Pancino sono rispettate tutte le condizioni formali che ne fanno per l’appunto un’autobiografia ma a fare la differenza è il modo in cui la sua vita individuale e il farsi della sua personalità vengono difesi da inopportune interferenze. E inopportuna sovrapposizione può essere – lo si diceva in precedenza – proprio la storia sociale e politica che pure, di necessità, trova il suo spazio nella vita individuale, nella sua come in quella di noi altri. Lo diventa quando una qualche filosofia della storia provvede ad assoldarla e a farne non solo un momento del racconto ma l’aspetto predominante.
Accade a molte autobiografie per cui non capisci se sono biografia, un romanzo personale o un racconto storico. A mo’ di esempio – ma anche perché il primo dei tre volumi è dedicato a Pancino, per l’occasione Pancio – prendo la Storia di un comunista di Negri. È proprio il titolo a svelarci l’inghippo perché in effetti la vita di Toni vi appare saturata di storia: l’infanzia e la guerra del fascismo, l’università e la ricostruzione postbellica, la conversione marxista e le prime lotte operaie al ritmo delle quali vivrà la sua vita fra gli anni Sessanta e Settanta. A riprova di un siffatto… sì, storicismo, l’assenza di un qualche strappo vero e sofferto.
Di contro c’è quella “mia storia” di Gianfranco che Gianfranco non vuole confondere con la più grande storia del movimento rivoluzionario degli anni ’70 in Italia e neppure svilire in quella di una mera avventura scientifica. Se nell’autobiografia di Negri vive e respira lo spirito dei tempi nascosto dietro la maschera di “un comunista”, in verità il comunista Toni non c’è e non c’è perché ha subito la sorte che lo storicismo riserva al singolo in nome della linea dello sviluppo storico. A me pare che Ricordi a piede libero preservi invece proprio la singolarità individuale di quel nome di persona. Da una parte con l’uso frequente del pronome personale “io”: io, io, io. Io con mio fratello, mia sorella, mia madre. Io con Kit, con i compagni di Rosso, con Loredana, con Gualtiero. Io con Pierre nei laboratori di ricerca. Per non confondermi con nessun altro, ci sta dicendo Pancino, e perché non voglio nascondermi dietro qualche maschera onnicomprensiva che mi permetta di leggere e scrivere il racconto della mia vita come un tutto coerente e sensato. Al contrario, voglio restare sempre me stesso, con le incongruenze, le sfasature, le contingenze che incrinano questa continuità fittizia: ora come autonomo, ora come esule, ora come scienziato. E sempre qui, in situazione perché è la situazione che caratterizza il punto di vista della singolarità, senza che essa si riduca a unicità e indicibilità. È questa sua singolarità che Gianfranco rivendica, una singolarità che sempre rischia di sfuggire al nome proprio perché il nome proprio spesso non riesce a dirla a sufficienza.
Ma allora non basta dire che l’autobiografia come genere deve puntare sul nome esigendone semplicemente l’onnipresenza perché indichi l’autore in copertina, il narratore del racconto e il personaggio di cui si parla. Più del nome proprio, vale per l’autobiografia, quale sua prova immanente e sua categoria centrale, la singolarità di quel nome. Sorda com’è ai rumori del mondo, lo storicismo riduce all’insignificanza la sua pur necessaria contingenza.
Forse mi sbaglio ma la parola “comunista” neppure nella sua funzione aggettivale è presente nella nostra autobiografia e la cosa non mi meraviglia perché Pancino non ha bisogno di farsi conoscere attraverso l’immagine del comunista duro e puro. Ha la sua faccia che poi è anche il suo nome e questo gli basta. Quanto alle parole “comunista” e “comunismo”, esse sono nella sua vita stessa. È lì che il lettore deve cercarle.
[1] P. Lejeune, Il patto autobiografico, Il Mulino, Bologna 1986, p. 13.