Per chi proviene da altre parti d’Italia, un tratto comune di certa “padanità” – se poi esiste – e in particolare di quella che attiene alle lande della cosiddetta “Bassa” – sempre che esista anche questa, e non faccia invece parte di una data mitografia (per quanto condivisa e piuttosto resistente) – è il vociare: soprattutto se effettuato a un tono basso, quasi introvertito, e spesso introverso, dai tempi dilatati nel suo continuo aprirsi a intercalari e digressioni. Una caratteristica più specificatamente emiliana, a questo punto, come testimoniano le “voci” di un autore che qui, come anche altrove, rivela precise inflessioni modenesi come Gianfranco Mammi: i trentuno racconti che formano Voci dal piano di sotto sono spesso l’espressione linguistica più nitida dei trentuno, o più, mondi “interiori” che via via si dipanano, nel loro complesso gioco con i mondi che di primo acchito restano “esteriori” alla singola soggettività.
Altro indizio di “emilianità”, se si vuole, è legato più in generale allo stile adottato da Mammi, coerentemente con quella “linea emiliana” inaugurata da Gianni Celati e rappresentata soprattutto, per questo libro di Mammi, da Daniele Benati, citato in epigrafe – un eloquente «Perché si fa così a scrivere, si raccontano un sacco di balle» – ed Ermanno Cavazzoni, peraltro curatore della collana Compagnia Extra presso la quale esce il libro. Al “piano di sotto”, tuttavia, non ci sono soltanto dei nuovi “lunatici” padani – per ricordare il titolo del romanzo d’esordio di Cavazzoni, quel Poema dei lunatici (1987) che affascinò anche Fellini – o della Bassa, bensì un microcosmo che, nelle sue varie diramazioni digressive, ha svariate caratteristiche proprie che lo tengono ben lontano da un’ipotesi svilente di manierismo. Se ne citeranno alcune, lasciando a chi vorrà ascoltare queste Voci la scoperta e il divertimento – stavo per scrivere “lo spasso”, poi un certo ritegno sempre tipico della Bassa mi ha trattenuto – di esplorare il libro nella sua interezza.
Il “piano di sotto”, innanzitutto: la prima sezione è intitolata “Stanze di pianura”, non già Narratori delle pianure, come nel caso del libro di Celati del 1985; l’immaginario è dunque di una pianura, singolare, e forse anche condominiale, in superficie, ma al “piano di sotto” di molti dei racconti ci sono in realtà gli inferi, visto che la morte è spesso in agguato. Non così i morti, o i fantasmi, le cui presenze sono relativamente scarse, in un mosaico di voci che hanno luogo perlopiù tra i personaggi o nelle loro teste. E se non è morte è almeno una voragine che forse non risulta molto più grande di una buca in una strada di città o di campagna, ma si rivela poi abbastanza capiente per dare adito a una o più sparizioni. Oscillando in effetti tra aspiranti suicidi e novelli Bartleby della provincia italiana, i personaggi di Mammi spariscono in continuazione, assottigliandosi sempre di più, fino a coincidere con il proprio nome, come flatus vocis, o scoppiando come bolle di sapone, sempre secondo modalità più o meno surreali.
Accade anche ai personaggi, e sono a sad few, che hanno in qualche modo a che fare con la scrittura o la produzione artistica, nel magistrale racconto di apertura “Amaranto”, in “Turno di notte” e altre apparizioni e, congiuntamente, sparizioni. Scrivendo non si raccontano soltanto balle, come recitava l’epigrafe già menzionata di Benati, ma anche la vita di chi scrive può ridursi a una frottola immaginaria, e dell’immaginario. Oppure ancora una barzelletta, per alcuni racconti che, dal punto di vista della narrazione, seguono la struttura di “sommari” che nei romanzi sostituiscono quei passaggi che altrimenti risulterebbero verbosi, pesanti (o troppo lunghi, per le esigenze editoriali): è il caso de “La rincorsa” – un racconto che per l’ambientazione e alcuni elementi narrativi ricorda Pluriball, l’ultimo romanzo di Mammi, uscito per Nutrimenti nel 2023 – o de “La passeggiata”.
Barzellette che fanno ridere e sono spassose, come si accennava, ma che non mancano di inserirsi in un contesto tragico che a tratti smorza la risata. E quando non è la tragedia della morte o della sparizione, il senso tragico è quello dell’esperienza della libertà, in senso esistenzialista, come accade al povero Mariolino Goldoni di un racconto ironicamente intitolato “Libero”. In altri racconti (la casistica delle Voci è molto più ampia di quanto si possa qui riportare) il genere testuale è viceversa più “alto”, ricorrendo a un indiretto libero fortemente ritmato, caratterizzato in più di un’occasione da una clausola finale che, oltre alla funzione comica, restituisce un particolare andamento musicale al pensiero e, non da ultimo, permette l’affioramento della realtà esteriore in quelli che non di rado sono monologhi deliranti o paranoici, quasi sempre ossessivi. E ciò si ritrova anche nei pochi, ma per questa ragione assai persuasivi, elementi dal chiaro valore politico, come l’emersione del complottismo e del tic linguistico dell’anti-anglismo in “Sequenza” o negli stereotipi sull’America, completamente inventata (ma non troppo) dal profondo della provincia italiana, in “Quaranta secondi”. Si staglia, infine, la realtà interiore ed esteriore della città di M*, che in questi racconti emiliani senza manierismo della scuola emiliana, è Modena, e al tempo stesso non lo è: forse la città dei morti, infine, dove tutte queste voci si scoprono riposare, e insieme continuano a vivere.