Gianfranco Calligarich / Esplorazioni e colonialismi

Gianfranco Calligarich, Una vita all’estremo, Bompiani, pp. 190, euro 17,00 stampa, euro 10,99 epub

Divenuta romanzo, come ha confessato l’autore in un’intervista, dal recupero del materiale preparatorio per un progetto cinematografico non realizzato, questa appassionante ricostruzione della carriera africana dell’esploratore parmense Vittorio Bottego, è significativa per un’innumerevole serie di motivi. Intanto e forse soprattutto, come ben puntualizza Calligarich nella nota introduttiva, per non aver voluto essere una biografia o una testimonianza storica – per quanto, inevitabilmente, non possa in parte fare a meno di diventarlo – ma solo un romanzo. In questo modo lo scrittore ha proseguito il suo personale confronto – fatto di una sapiente commistione di allineamento ed eversione – con i generi o i mood e i registri narrativi classici, che ha attraversato lungo tutta la sua brillante traiettoria letteraria: il Bildungsroman, il romanzo epistolare, la grande saga familiare, il noir, ed ora anche il romanzo d’avventure. È infatti questo il clima e l’atmosfera predominante del testo: il sogno di un’impresa favolosa, la ricerca febbrile di un luogo irraggiungibile, l’inestinguibile sete di conquista di una terra ardua ed ignota, che divora un uomo e lo conduce oltre ogni affetto, passione o limite: verso l’estremo, come il titolo già palesa. Da un lato le relazioni della Società Geografica, i segni tortuosi dei grandi e piccoli giochi diplomatici tra le potenze colonialiste, dall’altro l’eco immaginario dei maggiori capolavori che hanno saputo trattare quasi identiche hybris, titoli come ad esempio Cuore di tenebra di Joseph Conrad, L’uomo che volle farsi re di Rudyard Kipling o, solo nel cinema, Aguirre, furore di Dio di Werner Herzog.

Bottego non è un protagonista amabile in cui ci si possa identificare, né un puro villain da contemplare con disprezzo: resta sfumato, distaccato, opaco, nelle pagine di Calligarich – come il Kurtz conradiano, prigioniero del suo miraggio e della sua monomania – tanto da cedere costantemente la scena ai personaggi secondari che parlano e agiscono in sua vece. Eppure due donne perdono la testa per lui, la selvaggia venere nera Batula, che morirà facendogli inutilmente scudo col suo corpo durante lo scontro mortale con le tribù aizzategli contro dal Negus Menelik, sul Daga Roba; e la nobildonna fiorentina Delia Montenero, che, come una vedova inconsolabile, si trasferirà in Eritrea dopo la morte dell’amante, unendosi all’unico uomo che, come lei, ne coltivi il ricordo perenne: il  finanziatore e sodale prima, poi diffamatore e nemico, Matteo Grixoni.  Nessuno sfiora Bottego indenne, amici e compagni restano stregati, succubi, a condividerne il tragico destino, come Maurizio Sacchi, o a sopravvivere amaramente alla sua rovina, come Carlo Citerni e Lamberto Vannutelli. Neppure il narratore, innominato funzionario della Società Geografica Italiana, contraltare statico e sedentario dell’inarrestabile ed errabondo Bottego, ormai anziano pensionato – “in questo Novecento che, con le sue novità, i suoi Mussolini e i suoi Hitler al potere, le sue donne che si tagliano i capelli e vestono provocanti, le sue automobili che stanno sostituendo le carrozze, sta cancellando ogni passato” – rinuncia alla memoria tormentosa ed esaltante del breve periodo che, solo, ha dato un senso alla sua vita, alla sua e a quella di Bottego: “Difficile non pensare a lui e alle nostre due vite per cinque anni opposte e parallele. Dal 1892 al 1897…”.

E così sfilano le imprese dell’africanista: la carriera militare finalizzata a un unico progetto; lo sbarco a Massaua; gli abbocchi con il Governatore Generale dell’Eritrea generale Antonio Gandolfi e con il presidente della Società Geografica Italiana, marchese Giacomo Doria; l’attraversamento della Dancalia secondo un itinerario mai fino ad allora percorso, concluso ad Assab; l’esplorazione del bacino del Giuba al confine con la Somalia britannica; infine la mitizzata ricerca delle foci dell’Omo, contemporanea alla disfatta di Adua – di cui Bottego, isolato nelle giungle, è all’oscuro – e che sarà causa indiretta della sua morte.

Calligarich, non a caso nato ad Asmara, tratteggia con schiettezza priva di scorciatoie semplicistiche la relazione con l’alterità etnica: al razzismo aperto ed ebete di Umberto – “re Mitraglia”, presto bersaglio dei colpi giustizieri di Gaetano Bresci – che chiama gli africani “scimmie” e Bottego “amico dei negri”, si contrappone il cameratismo paternalistico dell’esploratore, disposto a prendersi un’amante nera, la bella e altera Batula, o a portarsi per qualche tempo a casa in Italia, come uno di famiglia, la fedele guida Mohamed, ma, con identica noncuranza, a bruciare villaggi riottosi e frustare a sangue o fucilare portatori inaffidabili. D’altra parte, se siamo realisti, l’esplorazione non è uno scherzo, si rischia la vita: l’Africa è un luogo estremo e i suoi popoli, molto meno scimmie dei Savoia, non sono amichevoli né remissivi. Dopo la sconfitta di Adua – racconta Calligarich – gli ascari dell’esercito italiano, fatti prigionieri dalle truppe di Menelik e considerati traditori, vengono tutti amputati della mano destra e del piede sinistro, per renderli inabili a qualsiasi attività militare: da Roma si impianterà ad Asmara una ditta di strumenti medico-chirurgici per una massiccia produzione di protesi. L’avventura coloniale è un gioco cruento, grondante di sangue e sudore, con qualche occasionale schizzo di sperma: se di amore si tratta, assomiglia più che altro a uno stupro.

La riflessione e l’affabulazione sul nostro passato rimosso – solo Ennio Flaiano con Tempo di uccidere, aveva osato senza infingimenti estrarre lo scheletro dall’armadio – sembra in questi ultimi anni dare frutti letterari tardivi ma proficui: Una vita all’estremo, che ci proietta direttamente alle origini del nazionale sogno (o incubo) africano, si inserisce perfettamente in questa catartica temperie.

Auguriamo a questo bel romanzo la stessa fortuna e longevità de L’Ultima estate in città, esordio narrativo di Calligarich nel 1970: tradotto recentemente in Francia da Gallimard ha vinto il Premio Fitzgerald diventando in breve un caso internazionale pubblicato in venti paesi tra cui Stati Uniti, Inghilterra, Olanda, Spagna, Grecia e Israele.