Il 9 ottobre 1963, alle ore 22,39, un volume di roccia di 270 milioni di metri cubi si stacca dalla montagna sovrastante la diga del Vajont e provoca un’onda che supera di 250 metri l’altezza della diga stessa e distrugge, con una forza inimmaginabile, l’ambiente circostante. In appena sei minuti si compie uno dei disastri ambientali più tragici della storia del nostro paese che provocò oltre 2000 morti e cancellò i piccoli comuni limitrofi. Approfondimenti successivi dimostrarono come la catastrofe fosse da imputare all’incuria e alla mancanza di studi approfonditi nella progettazione della diga o, meglio, alla sottovalutazione dei pericoli. La costituzione geologica del versante del monte Toc, da dove partì la frana, il disboscamento e i cambiamenti della morfologia del territorio, insieme a piogge abbondanti, furono le concause di un disastro che nessun metodo di controllo messo in atto riuscì a prevedere.
Gian Antonio Cibotto fu immediatamente inviato nella zona dopo la catastrofe dal giornale in cui lavorava, sia perché era originario della zona e sia perché aveva seguito precedentemente la tragica alluvione del Polesine del 1951 pubblicando, tre anni dopo Cronache dell’alluvione. Lo spettacolo che gli si presentò davanti agli occhi si rivelò ancor più tragico di quanto si aspettasse: nel territorio martoriato dalla furia dell’acqua, tra le macerie delle case distrutte si trovavano corpi senza braccia e senza gambe, irriconoscibili, con ferite tremende a causa della violenta forza dell’acqua. A questo si aggiungeva lo strazio dei sopravvissuti, che per un motivo qualsiasi non si trovavano nella zona al momento della catastrofe o erano in posti riparati, tornati per cercare tra le macerie delle case, scavando a mani nude, i loro cari sperando di trovarli ancora in vita. Un inferno sulla terra su cui Cibotto prese appunti che diede alle stampe, in forma di romanzo, quasi vent’anni dopo, nel 1982: questo è stato il tempo necessario all’autore per far decantare le emozioni, la visione dei corpi mutilati delle vittime, dei visi stravolti dei sopravvissuti nel vedere i loro cari defunti messi uno accanto all’altro in attesa della ricomposizione delle salme. E la rabbia silenziosa di un popolo solitario e riservato che si è sempre risollevato dalle sciagure tenendo dentro di sé un dolore immenso che si porterà dietro per tutta l’esistenza. Una cronaca fedele e puntuale, cruda e senza filtri, un documento fondamentale, ristampato quarant’anni dopo da La nave di Teseo, per tenere vivo il ricordo della tragedia e ribadire il monito che non si può sfidare e violentare la natura senza conseguenze.
Ma il romanzo non parla solo di questo. Qualcuno dice che l’uomo, inteso come umanità, si adegua a tutto e così sembra essere stato anche in questo caso. Arrivato a Belluno, dove è stata attrezzata una sala stampa per i giornalisti, Cibotto dice: “In città la vita scorre tranquilla, normale, come se il disastro accaduto a pochi chilometri di distanza non la riguardasse”. E successivamente, invitato a una battuta di caccia alla lepre – esperienza che aveva sempre evitato e detestato –, si sorprende di sé stesso per aver accettato di partecipare a causa dell’avvenenza di una giovane donna: solo il ritrovamento di un corpo di un giovane, che il fiume aveva trascinato per chilometri dal Vajont, sembra farlo ritornare in sé. La successiva cena con gli aristocratici che hanno partecipato alla battuta dimostra ancora la grettezza dell’uomo: sapendo che aveva visitato la zona del disastro, insistono per avere i particolari non tanto per il turbamento dell’accaduto, ma per poterli poi raccontarne in qualche evento mondano. Senza contare che la prima preoccupazione dei politici del posto e del governo centrale, questi ultimi arrivati celermente da Roma, sarà quella di negare qualsiasi responsabilità.
Una ristampa indispensabile quindi che, oltre alla negligenza del genere umano, mette in risalto la sua imperdonabile, intollerabile e infinita meschinità. The show must go on, nonostante tutto. Nonostante i morti e nonostante, soprattutto, i sopravvissuti.