Gian Andrea Franchi / Il diritto di Antigone

Gian Andrea Franchi, Il diritto di Antigone. Appunti per una filosofia politica: a partire dai corpi migranti, Ombre Corte, pp. 128, euro 10,00 stampa

Il diritto di Antigone è un breve ma denso saggio di filosofia politica. L’obiettivo sembra interessante e anche abbastanza ambizioso: offrire, insieme, un modello di militanza politica all’altezza dei tempi e il pensiero di questa pratica. Il tutto in diciotto, concise riflessioni.

Primo punto. Franchi riassume il suo modello nella formula: “epistemologia dell’andare in strada”[1], presentata come una sorta di rivoluzione copernicana in politica. L’aspetto ineludibile è il nesso con la sua personalissima esperienza di strada con i migranti della cosiddetta rotta balcanica che ai suoi occhi ha pagato ampiamente. L’autore ricorda di avere esordito politicamente in un’epoca in cui fare politica era rispondere a un’organizzazione depositaria del progetto e che dispensava ordini e direttive. Le motivazioni personali restavano un affare privato di militante che doveva preoccuparsi di applicare al meglio la linea politica, tutta immaginaria e concettuale[2], che gli veniva calata dall’alto sulla testa e che lui, a sua volta, doveva calare sulla testa di terzi, preferibilmente operai che non incontrava mai se non talvolta ai cancelli della fabbrica dove volantinava. Non fa nomi ma si capisce che il problema è di area di appartenenza e immaginiamo possa essere quella del Pci anni Sessanta e del Manifesto primi anni Settanta. E qui, chi avesse avuto un’esperienza diversa, per esempio operaista, già avrebbe da ridire su questa ricostruzione. Si pensi soltanto alla pratica della conricerca dei primi anni Sessanta. Non era quella un’epistemologia dell’andare in strada, “un rapporto di corpi. Un corpo [che] chiede, un corpo [che] risponde”[3]?

Secondo punto: la sua filosofia politica, che presumo rivolta all’avvenire. In filosofia, si sa, quando qualcuno azzarda una mossa simile è perché ha di mira un rovesciamento del punto di vista sul mondo a partire da un cambiamento di prospettiva. Mi viene in mente Feuerbach che all’essere astratto della vecchia filosofia, “un essere esclusivamente pensante”, voleva sostituire “un essere reale, sensibile” [4], con tanto di corpo che mangia e all’occasione pure caca. Oppure Nietzsche che ricorda a Feuerbach che quel tentativo di oltrepassamento della metafisica era stato vano perché da che mondo è mondo la filosofia è sempre stata “un’interpretazione del corpo e un fraintendimento del corpo[5]. E via di questo passo. Alla filosofia politica non poteva accadere di meno. Se mai questo gioco a rincorrersi l’ha esacerbato. Da che Marx ha introdotto nella politica la lotta di classe operaia e si è inventato, partendo da sé, l’impegno politico militante, il tema del soggetto ha letteralmente fagocitato il pensiero della rivoluzione. Il libro di Franchi mi pare rientri pienamente in questa tradizione di pensiero e già per questo motivo è difficile consegnarlo al futuro. Prima Marx con la sua classe operaia erede della filosofia classica tedesca, poi Negri con la sua moltitudine erede del materialismo spinoziano, ora Andrea – il nome con cui compagni e amici  l’hanno chiamato da sempre – con i suoi corpi migranti in compagnia di antropologi, psichiatri e filosofe post-strutturaliste. La genealogia non si interrompe affatto.

In genere si parla di migranti – mediterranei, della rotta balcanica, economici, ecc. – come di lavoratori e lavoratrici, come forza lavoro.  I corpi migranti di Andrea non li riconosci attraverso il lavoro. E questa è certamente una novità.  Che poi significa che non puoi posizionare questo tentativo di ripensare la filosofia politica sul terreno dell’hegelo-marxismo.

Non traduci il corpo migrante con l’autocoscienza della Fenomenologia né il processo della sua liberazione con la dialettica del servo e del padrone[6]. Siamo tornati alla lotta per la vita e per la morte, hegelianamente alla contesa delle autocoscienze opposte. Accade al corpo migrante nel suo vis-à-vis con lo Stato ma accade anche a noi al riparo dei nostri confini (di Stato). Solo che non ce ne siamo ancora accorti[7]. Evidentemente continuiamo a cullarci nel mito dello Stato di diritto quando la realtà è ormai quella di “democrazie a bassa intensità[8].  Qui ha ragione Andrea: i corpi migranti mai potranno dialettizzarsi con lo Stato, vestire i panni del cittadino, “sono fuori dei circuiti di riconoscimento degli Stati e anche dalla possibilità di conflitto per acquisire diritti”[9]. Si spiega perché non può importargli di interrogarsi sul loro destino, pensarli al calduccio in qualche paese europeo. Ma che fine faranno questi corpi una volta curati e rimessi in piedi? Continueranno a camminare, la sua risposta. “È questo il cuore della condizione di profugo: andare, andare, spesso senza sapere dove… l’importante è andare via…  ”[10]. Sono le stesse parole che il signore di Kafka rivolge al servo che gli chiede dove sta andando: Non lo so […]. Pur che sia via di qua, via di qua, sempre via di qua, soltanto così posso raggiungere la meta[11]. Ho sempre letto questo apologo in una chiave ontologica: l’andare via come un movimento costitutivo dell’essere.

Per Andrea si tratta del “diritto di Antigone[12]. Il corpo migrante come Antigone, lo Stato come Creonte. Se scomoda Sofocle, è perché il suo corpo migrante non è costituente di alcunché. Come non lo è l’opposizione sofoclea di Νόμος (Legge) e Δίκη (Giustizia)[13]. Il diritto – ontologico lo definisce Andrea, in verità una petitio principii – di andare via non porta il corpo migrante da nessuna parte, come l’appellarsi di Antigone a Δίκη non la salva dalle grinfie di Νόμος. Lo condanna invece a giocarsi la partita – game, viene chiamata – con lo Stato sulla terra di nessuno del confine. Ad infinitum. Sisifo. Terribile. Avremmo preferito che Andrea gli apprestasse un buon cavallo su cui montare in sella. Come il buon servo del nostro apologo.

A riprova di questa impotenza di fare e agire del corpo migrante, c’è infine lo sguardo. Certo, esprime un mare di bisogni ma anche un vuoto di desideri. Andrea, nello sguardo tristissimo e disperatissimo di chi sulla frontiera si gioca la vita, scorge solo l’infanzia, più esattamente l’essere infante di quel corpo che si esprime non a parole bensì “con la sua esposizione in un modo che va ben oltre a quello che potrebbe o saprebbe dire”[14].

Come dai bisogni elementari – ché solo di questi sono capaci i corpi migranti – si trascorra ai desideri, è spiegato con il ricorso, per l’appunto, all’infanzia. L’infante è depositario del più genuino dei desideri, il più autentico perché non mercificabile: il desiderio dell’altro che significa riconoscimento e soprattutto relazione[15]. L’impressione però è che al corpo migrante non sia permesso di diventare adulto, che abbia bisogno dell’eterna cura dei suoi genitori. “Attività politica di cura” la chiama Andrea[16]. L’ignudo da vestire e l’affamato da imboccare è il migrante ridotto alla condizione infantile dell’inerme e del bisognoso. Tutta l’attività politica di cura si risolve nella sua protezione e nel suo accudimento.

Sicuramente questo approccio al tema del corpo migrante non è spinoziano,[17] altrimenti qualche segno di vita dovrebbe pur darlo se è vero che per Spinoza anche le passioni più tristi non riescono a spegnere del tutto la potenza di agire.

Comprendiamo finalmente il significato del rito pubblico del lavaggio dei piedi in piazza a Trieste e le foto shock su facebook, aspetti essenziali della pratica di Linea d’ombra, l’associazione che si occupa dei migranti a Trieste e di cui Franchi e Lorena Fornasir sono protagonisti. Tutte le immagini diffuse parlano solo di didattica del dolore! In effetti solo coi gesti di Fornasir la riflessione di Andrea acquista un senso e rivela il suo nesso con una pratica che si vuole politica e nuova. La scena è quella del primo piano di un piede straziato e di una mano infilata in un guanto di lattice monouso che lo soppesa, lo strizza, lo igienizza. Una mano senz’altro professionale, eppure carica di “un valore profondo, generativo”[18]. Immagini di gesti semplici e sicuri, pochi, eseguiti con distacco e precisione perché mille e mille volte ripetuti. E tutte, proprio tutte, esibiscono il corpo migrante come un oggetto da restaurare. I corpi compaiono come ferite – piedi feriti schiene ferite volti sofferenti – frazionati in parti metonimiche, in cui il tutto non appare mai nella sua completezza. Corpi doloranti e passivi. E soprattutto corpi muti, che non hanno voce. Certo, il corpo “può dire quello che il linguaggio non riesce a dire, si vergogna di dire”[19] ma la voce non è semplice suono, invece, con le parole di Calvino, “mette in gioco l’ugola, la saliva, l’infanzia, la patina della vita vissuta, le intenzioni della mente, il piacere di dare una propria forma alle onde sonore”, e che ti spinge a “immaginare il modo in cui la persona potrebbe essere diversa da ogni altra quanto è diversa la voce”[20].

Si dirà: ma almeno Lorena e Andrea fanno qualcosa! Certo, ma se politica vuol dire quello che in inglese si chiama agency – capacità di agire, insomma soggettività in azione – allora bisogna avere la chiarezza di non confondere e contrabbandare per agire politico la condivisione della sofferenza, l’empatia. Che pure sono atteggiamenti rispettabili, ma non proprio “politici”, perché non fanno che sottolineare e ribadire la sostanziale passività dei corpi migranti, anziché tentare di afferrare e lasciare trasparire – là dove e quando si presenta – quella soggettività variegata e complessa che pure muove – in senso stretto – i corpi migranti: “Chi parla da vittima, o per la vittima, è sempre nella situazione di chi parla al posto di un altro”[21].  Se ne occupa anche Dipesh Chakrabarty, nel libro citato a più riprese. Chi parla per l’altro, sintetizzo al massimo, è il compassionevole che Chakrabarty distingue tra chi si accontenta di stare di fronte al sofferente, lo osserva e la chiude lì e chi questa sofferenza vuole mostrarla[22]. La nostra coppia appartiene a quest’ultima schiera: Lorena con le foto, le immagini e le interviste, Andrea con interventi scritti, in una sorta di divisione del lavoro. Credo che per entrambi mostrare la sofferenza dei corpi migranti rappresenti il momento clou del loro autoriconoscimento. Su questo aspetto Andrea insiste spesso. Accadeva la stessa cosa, ci dice Chakrabarty, agli occidentali colonizzatori afflitti da sensi di colpa. Quanto agli altri, si può partecipare al gioco soffrendo vicariamente.

D’un colpo, i corpi migranti scompaiono dal libro. A occupare lo spazio delle ultime quattro riflessioni è la morte che in verità serpeggia in tutte le altre pagine. I corpi migranti ne sono impregnati. Andrea li ha costruiti come esseri-per-la-morte: sordi, opachi e senza vita. Sono pagine brutte, difficili da accettare e non tanto per quello che dicono sulla morte quanto per il segno che lasciano su quella che Andrea ci presenta come la sua filosofia politica. L’avremmo apprezzata di più se da uomo libero qual è ci avesse offerto di che meditare sulla vita[23].


Note 

[1] Il diritto di Antigone, cit., p. 12 e p. 99: “Il riferimento all’esperienza personale non può essere ritenuto insignificante come se fosse meramente individuale. Un dato da superare politicamente è proprio la visione individualistica dell’essere umano. La necessaria innovazione del modo di pensare l’impegno politico oggi deve accogliere l’intimo intreccio dell’esperienza soggettiva con quella storico-sociale: senza trasformazione soggettiva non può darsi trasformazione collettiva”.

[2] Ivi p. 12.

[3] Ivi p. 15.

[4] L. Feuerbach, Principî della filosofia dell’avvenire, Einaudi editore, Torino 1971, p. 122.  

[5] F. Nietzsche, La gaia scienza, Adelphi Edizioni, Milano 1984, p. 16.

[6] G. W. F. Hegel, Fenomenologia dello spirito I, La nuova Italia, Firenze 1967, pp. 153-164.

[7] Il diritto di Antigone, cit., p. 60: “Fino a quando esisteva nelle società occidentali quel tipo di lotta per il riconoscimento di forme diverse di soggettivazione, che era il conflitto sociale – fra cui fondamentale il conflitto di classe –, esisteva anche, come suo effetto, una forma di governamentalità cosiddetta democratica, ora in fase di sparizione”.

[8] Ibidem.

[9] Ivi pp. 61-62.

[10] P. 50.

[11] Kafka, La partenza in Racconti, Mondadori Editore, Milano 1999, p. 454.

[12] Il diritto di Antigone, cit., p. 68.

[13] Sofocle, Antigone, Einaudi editore, Torino 2007, p. 15: “Non veniva da Zeus la tua legge; né la Giustizia che convive con gli dei di sotterra l’aveva stabilita per i mortali. Né credevo che i tuoi decreti potessero avere tanta forza da abrogare quella delle leggi non scritte degli dei, quelle leggi che non solo oggi o ieri ma sempre vivono e nessuno sa quando apparvero”.

[14] Ivi p. 70.  La stessa modalità della prostituta (pro-statuere) in strada.

[15] Ivi p. 73.

[16] Ivi p. 40.

[17] Ivi p. 30: “Spinozianamente, il corpo umano è conatus, imaginazio, potentia. Potenza relazionale perché il corpo è un centro, un incrocio di relazioni”.

[18] G. A. Franchi, Il diritto di Antigone. Appunti per una filosofia politica: a partire dai corpi migranti, ombre corte, Verona 2020, p. 9.

[19] P. 71.

[20] I. Calvino, Un re in ascolto

[21] D. Giglioli, Critica della vittima, nottetempo, Roma 2014, p. 17.

[22] D. Chakrabarty, Provincializzare l’Europa, Meltemi editore, Roma 2004, § V.

[23] Spinoza, Etica, Editori Riuniti, Roma 1988, Parte quarta, Prop. LXVII: “L’uomo libero non pensa a nulla meno che alla morte, e la sua sapienza è meditazione non della morte, ma della vita”.