La premessa da cui partire per un confronto con questo ultimo saggio di Gian Andrea Franchi dal titolo emblematico Per un comunismo della cura uscito da poco per DeriveApprodi è presto detta: le rivoluzioni comuniste del ’900 sono tutte fallite per aver cercato “di organizzare la società attorno ai principi di proprietà comune dei mezzi di produzione e dell’abolizione della proprietà privata”.
Se la parola «comunismo» invece fosse stata intesa correttamente, cioè come comunismo somatico[1], ovvero della cura, le cose sarebbero andate diversamente. E infatti il titolo del saggio ha valore illocutorio, di promessa e di precetto: se vuoi ri-pensare il comunismo, restituirgli il suo autentico significato, non puoi non affidarti all’attività politica di cura sull’esempio della pratica triestina di Linea d’ombra.
Di «cura» Franchi aveva già parlato come costitutiva di una filosofia politica[2], quanto nuova non era dato sapere. Ora rilancia la sfida alzando la posta. Come a poker dove il rilancio è sempre operazione di scrematura. Evidentemente Franchi con questo nuovo saggio intende chiamare a raccolta il mondo del volontariato, laico o cattolico poco importa, per un progetto politico preciso: creare in giro per l’Italia 10, 100, 1000 piazze del mondo sul modello della piazza triestina.
Per tornare a far politica, sostiene a ogni piè sospinto, e il suo pensiero corre a Ventimiglia, a Val di Susa, a Campi Bisenzio, alla Palermo di Mediterranea, insomma alle tante comunità locali vogliose, ne è convinto, di coordinarsi e organizzarsi in rete ché la logica dell’ognuno per sé e dio per tutti non porta da nessuna parte. Eppoi tanto originali nella loro singolarità, per aver privilegiato nella pratica di lotta il con piuttosto che il contro, ma miopi nel loro procedere in ordine sparso.
Franchi ha qualcosa in più da offrire loro: un pensiero forte, tanto forte da credere di riuscire a scuotere le coscienze a rischio di impigrimento dei tanti militanti.
Nel frattempo pensa bene di blindare il concetto «comunismo della cura» tra due virgolette doppie per meglio sottolinearne la rilevanza intanto teorica restando il suo inveramento per l’appunto una scommessa.
Che potrebbe rivelarsi un bluff se gli chiediamo di vedere le carte che ha scelto per giocare la sua partita. Prima di tutto quella di maggior valore, la carta del migrante. È il suo asso nella manica, quella che con una mossa a sorpresa tutta improntata a una filosofia dell’impolitico (Arendt, Anders, Benjamin, Weil, Jonas…), dovrebbe spiazzare quanti – e in Italia sono i più – si sono occupati del problema in termini di accoglienza, di politiche del lavoro e di cittadinanza.
No, Franchi non naviga a vista, tralascia quello che per lui sono solo preamboli e va al sodo non senza, però, aver restituito il suo significato alla parola perché l’etimo, si sa, fa la differenza.
Non migrante, dunque, troppo anonimo, ma «esule» o «profugo» ché il primo sta ad indicare colui che è ‘cacciato via’ (ex-) dal proprio suolo (sŏlum), il secondo) colui che fugge (fugĕre) avanti (pro).
Franchi usa indifferentemente l’uno e l’altro ma spesso preferisce una terza parola per meglio rimarcare la condizione di assoluta privazione in cui «esule» e «profugo» si trovano gettati. Si tratta della parola «corpo», sempre aggettivato a seconda dei casi: corpi offesi, corpi di dolore, corpi affamati, laceri e puzzolenti, corpo abbandonato, corpo miserabile, in fuga, in cammino, in cerca, corpo normato, identificato e catturato, corpi d’illusione, corpi colonizzati…
Le tre parole (esule – profugo – corpo) dicono la stessa cosa come accade alle tre persone della trinità. Ognuna è, nella sostanza, identica alle altre due e forse Franchi è alla dottrina teologica cristiana della consustanziazione che allude quando afferma che l’esule/profugo è il suo corpo mentre noi europei e occidentali possiamo solo dire di avere un corpo.
Ma anche, ed è l’altro aspetto del corpo, corpo relazionale ripensato alla luce del rito (cattolico?!) della lavanda dei piedi da parte di Lorena Fornasir, il convitato di pietra di questo saggio[3].
E solamente come corpo relazionale l’esule/profugo, che di per sé non costituisce una classe e non è un soggetto sociale omogeneo e attivo, rientra nel progetto politico del fondatore di Linea d’ombra. Perché straniato e assolutamente passivo. E poi, con i tempi che corrono, a chi altro rivolgersi per restare fedele a una militanza attiva lunga più di mezzo secolo? Ché, dove è il pericolo, cresce anche ciò che salva, diceva il poeta. Franchi ripone la salvezza, certamente la sua, nel corpo dell’esule/profugo che ai suoi occhi non è affatto la cenerentola invitata al gran ballo del principe ma il solo portatore di senso oggi in giro per il mondo.
Si badi, lo è esclusivamente per quel suo corpo piagato e sofferente, che cattura il nostro sguardo e ci inchioda alla nostra responsabilità di testimoni al sicuro da un dramma che solo per il momento non ci riguarda.
È in questa veste dunque che gli esuli e i profughi irrompono nella nostra vita rabbonita e pacificata come un messaggio dal futuro, letteralmente come gli ángheloi dell’apocalisse che disvelano il mondo di domani.
Penso all’Angelo della realtà di Wallace Stevens, a quel Sono uno come voi, e ciò che sono e so/ per me come per voi è la stessa cosa[4]. I «nostri» esuli, li chiama Franchi. Per dire che in questo vis-à-vis, esuli e profughi certamente non sono noi e mai potranno esserlo, ma che noi prima o poi saremo, e forse già siamo, loro.
Una reciprocità al negativo. Fuggono da una patria devastata ma anche “dalla crescente inospitalità della terra, ma verso dove fuggono, invece, non sanno, non possono e non possiamo sapere [grassetto nostro]”. Per loro come per noi mondo e terra non possono essere “una «casa» ma solo una prigione o una barca che lentamente affonda. «Loro» sono i primi a tentare di fuggire. Ma non c’è luogo in cui riparare. La terra tutta è ridotta a un luogo d’esilio. Sono – e siamo tutti – profughi ed esuli dalla terra“. Questo il messaggio che attiene alle cose future, inscritto a chiare lettere nel corpo dell’esule/profugo.
Ma non è sulla fascinazione di un angelo siffatto che vale la pena soffermarsi – e Franchi la subisce, eccome – piuttosto sul ruolo edificante che il Nostro gli assegna.
L’angelo che ci annuncia l’approssimarsi della catastrofe, è lo stesso che comunica, a chi sa co-rispondere alla sua chiamata, che lo Spirito dell’empietà del capitalismo può essere almeno frenato e contenuto. Torna il tema teologico-politico del katechon, di qualcosa o qualcuno che salva. Per Paolo (Seconda lettera ai Tessalonicesi, 2, 6-7), soccorre la forza del soffio della bocca del Signore, per Franchi la forza attrattiva di una logica modale (non si va oltre Kant) ad usum populi che sottende il programma di un comunismo “necessario seppure possibile e improbabile” (sic!).
Pagine brutte, infarcite di stucchevoli truismi, in più appesantite, siamo alla conclusione del saggio, da una sequela di predisposizioni che il militante di strada dovrebbe seguire sull’esempio della pratica politica dei suoi sodali di Linea d’ombra a Trieste. Una bella stecca, un do di petto mancato.
È dunque, filosofo dell’impolitico, Gian Andrea Franchi, ultimo comunista critico-utopico oppure, più prosaicamente, odioso tutore della pietà, il beccamorto di cui parla il giovane Castorp de La montagna incantata?
[1] G. A. Franchi, Per un comunismo della cura, DeriveApprodi, Bologna 2025, p. 140: “«in senso decisamente più esteso, può essere inteso come l’idea secondo cui i corpi pervengono a essere, e si mantengono, solo attraverso ciò che condividono con altri corpi»”.
[2] G. A. Franchi, Il diritto di Antigone, ombre corte, Verona 2022. Qui una mia recensione.
[3] Gesto con cui Lorena ha finito per identificarsi per l’uso sapiente che ne ha fatto per anni in piazza della Libertà a Trieste, ribattezzata per l’occasione piazza del mondo e, da qualche tempo, per averlo scientemente pubblicizzato con sapiente accortezza in interviste giornalistiche e radiotelevisive. Sul suo significato di rito in qualche modo religioso vedi YouTube, Sperare insieme, incontro con Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi.
[4] W. Stevens, Angel Surrounded by Paysans in M. Cacciari, L‘Angelo necessario, Adelphi Edizioni, Milano 1986, p. 9