Durante uno dei tanti festival del libro, un importante e stimabile editore italiano ha dichiarato che non pubblicherebbe mai un libro che avesse come argomento principale il covid. Complice il desiderio insopprimibile di cancellare una tragedia mondiale, per una volta condivisa da tutti (ricchi e poveri, stanziali e migranti, oppressi e oppressori, speculatori e vittime), tornare a una realtà simile a quella antecedente all’epidemia è però impossibile. Non solo perché il contagio non è spento, e le varianti continuano a spiraleggiare appoggiate sui nostri spostamenti intercontinentali, ma perché ha dimostrato come l’equilibrio di produzione e consumo del pianeta sia fragile, e con esso il tenore di vita di chiunque. La nostra vita è scandita da ritmi così precisi che i lockdown hanno messo in crisi proprio la globalizzazione e i processi di esternalizzazione intercontinentali, questa libertà assoluta delle merci. Questo per dire quando l’epidemia ci abbia segnato e la fragilità che ne consegue sia diventata elemento imprescindibile della nostra interiorità. E se non sono stati la precarietà e l’isolamento, la malattia e la morte hanno preso il sopravvento scrollando la parte più fragile di noi, quella dell’affetto e della paura.
Giampietro Stocco è autore di Un anno e mezzo via, un romanzo sul covid che quindi sfida tabù e ritrosie, scaramantici esorcismi, per calarci nel realismo più profondo della tragedia in un paese occidentale come l’Italia. L’autore è noto soprattutto come scrittore di fantascienza, anzi di ucronie, di cui vale la pena ricordare Nero italiano (2003), il più significativo romanzo tra quelli ambientati in una Italia alternativa dove il fascismo non è stato sconfitto nel 1945: un’opera di crudo realismo, o su quel confine fra la realtà e il sogno che chiamiamo allucinazione. È un’alterazione dei sensi che miscela le difficoltà percettive della vecchiaia con le frustate della febbre, gli effetti collaterali dei farmaci con la clausura dei reparti ospedalieri per infettivi. Ma forse solo un autore di fantascienza può riuscire a cogliere appieno le profonde modifiche che tre enormi tragedie (epidemia, guerra e cambiamento climatico) possono provocare all’identità degli umani, come possono modificare l’identità più profonda.
Il romanzo è impegnativo, non si può leggere né di fretta né distrattamente, perché la densità umana che descrive richiede di adattarsi e di sedersi accanto a quel letto di ospedale dove una donna anziana è impegnata in una battaglia che ha elevata probabilità di essere l’ultima. Il tempo presente e la prima persona della narrazione impongono di abbandonarsi per potersi sintonizzare sulle visioni di una donna anziana e malata, sui ricordi di una vita intera che, liberati dal tempo, spingono per uscire e tornare a una improbabile vita consentita dalla malattia. La consapevolezza delle regole cronologiche della memoria, quella marcatura biochimica capace di mettere in fila gli avvenimenti del passato e che ci rassicura sulla differenza tra realtà, ricordo e immaginazione, è un meccanismo destinato a venire meno, e allora una nuova realtà costruita di mescolamenti si affaccia e le immagini del passato si ibridano con quelle del presente. Ed è così che il tempo del ricovero si dilata, fino a decuplicarsi e diventare quei due anni e mezzo del titolo.
Una madre e un figlio sono calati in una situazione che nessuno dei due è preparato ad affrontare, resa difficile dal terrore del contagio, dalla mancanza di certezze, dall’improvvisare un’esistenza all’interno della società in cui sono saltate molte regole e incrinate le abitudini. L’epidemia ha costretto all’isolamento dove l’isolamento non era previsto, in cui il simulacro di una comunicazione totale, anche se non in compresenza, ha saturato ogni sinapsi umana attraverso simulazioni, stimolazioni e messaggi: in questo caso la malattia accompagna a un mondo, forse sballato, ma che oggi ha sempre più difficoltà a esprimersi: quello interiore.