Yokomizo Seishi, Il detective Kindaichi, tr. Francesco Vitucci, Sellerio, pp. 208, euro 13,00 stampa, euro 8,99 ebook
La letteratura poliziesca giapponese è per i lettori italiani un oggetto sconosciuto, meno famigliare di un UFO. Gli appassionati che frequentano i cataloghi delle case editrici e le riviste di settore possono farsi una cultura nelle grandi letterature tradizionali del poliziesco, americana, inglese e francese, e negli ultimi anni anche di scuole nazionali più recenti, o meno conosciute, come quelle scandinave o spagnole. Così, l’appassionato si stupisce quando dalle poche notizie reperibili in rete, o nelle prefazioni delle rare traduzioni in volume, scopre che la letteratura polar ha in Giappone una tradizione secolare altrettanto solida e fortunata di quelle occidentali.
Le caratteristiche del tantei shosetsū, il giallo nipponico, sono sia autoctone che di importazione. La prima categoria è testimoniata dall’antica tradizione del saiban shosetsu, sviluppato durante l’era Tokugawa (1603-1879) a partire dal successo del Tōin Hiji, titolo giapponese del Táng yīn bǐ shì, (1211, “Casi giudiziari risolti sotto l’ombra del pero”) di Guì Wànróng: una raccolta di 144 casi giudiziari cinesi, che tra l’altro è anche l’ispirazione che spinge lo scrittore olandese Robert Van Gulik (1910-1967) a scrivere i celebri gialli dell’onorevole magistrato Dee.
Avvicinandoci ai nostri giorni, l’epoca d’oro del poliziesco giapponese sono gli anni Venti, a partire dalla pubblicazione della serie Hanshichi torimonochō (“i blocchi degli appunti di Hansichi”), autore Okamoto Kido: si tratta di indagini che si inseriscono nel gusto cronachistico nero del Tōin Hiji, e per questo scontano un’ambientazione storica, nell’era Tokugawa appunto. Questo genere conosciuto come Torimonochō, sopravvive fino al secondo dopoguerra, con sensibili cambiamenti nella figura dell’okappiki, il detective di polizia, che fino agli anni Quaranta è un eroe positivo, fautore della ricomposizione dell’ordine, per diventare poi, sempre più spesso, un prevaricatore che sconfina nell’abuso di potere.
Su questa tradizione autoctona si innesta, a partire dal secolo scorso, il giallo d’importazione. Il principale autore è Tarō Hirai, autore che scrive con lo pseudonimo di “Edogawa Ranpo”, significativa trasposizione in ideogrammi di “Edgar Allan Poe”. Edogawa Ranpo è l’uomo che incoraggia il giovane autore Yokomizo Seishi a lasciare la carriera di farmacista e trasferirsi a Tōkyō per tentare la scrittura professionale.
Il romanzo di Yokomizo che oggi viene tradotto per la prima volta in italiano da Sellerio con il titolo Il detective Kindaichi (il titolo originale Honjin satsujin jiken significa più o meno “Il caso dell’omicidio nella stazione di posta”: l’honjin era un albergo per funzionari statali che nell’era Edo sorgeva lungo le strade di comunicazione) appare a puntate su rivista tra aprile e dicembre 1946. Si tratta del primo di ben 77 casi dedicati alla figura dell’investigatore Kindaichi Kosuke, che l’autore scrive e pubblica fino al 1980, alla vigilia della morte.
Kindaichi, come veniamo a sapere in questa prima avventura, è un detective privato dall’aspetto e dal passato piuttosto singolari: innanzitutto è più giovane di quanto i suoi clienti si aspettano, circa 25 anni, e poi ha alle spalle un periodo da immigrato negli Stati Uniti, dove si è fatto una fama risolvendo casi tra la comunità giapponese d’America.
Il romanzo è ambientato nel novembre 1937 nell’immaginaria località di Kawamura. Si tratta, come premesso anche dal narratore del prologo, di un classico giallo della stanza chiusa. Una coppia di sposi viene trucidata la prima notte di nozze a colpi di spada in una camera ermeticamente chiusa dall’interno. Poco prima della drammatica scoperta da parte della famiglia si sente nella notte la musica di un koto, una sorta di cetra orizzontale, che la sposa morta suonava a menadito.
Kindaichi Kosuke viene chiamato a risolvere il caso solo nel capitolo otto, quasi a metà testo. Il suo aspetto sconcerta la famiglia delle vittime e gli abitanti del villaggio, non solo per la giovane età ma anche per l’aspetto trasandato. Tuttavia, come ci anticipa il narratore già dalla sua apparizione, risolverà brillantemente il caso, e senza deludere gli appassionati del genere, che ci troveranno anche un corto circuito tra fiction e meta-letteratura perché è Yokomizo stesso a citare nel prologo i grandi classici del locked-room mystery, gli enigmi della stanza chiusa: John Dickson Carr, Gaston Leroux, S.S. Van Dine e Maurice Leblanc. Dal momento che in origine il romanzo è apparso a puntate, forse si tratta di un avvertimento lanciato al potenziale lettore su quello che deve aspettarsi negli episodi successivi.