Gettarsi nel vuoto

Julia von Lucadou, La tuffatrice, tr. Angela Ricci, Carbonio Editore, pp. 258, euro 16,50 stampa

Perché Riva Karnovsky, famosa campionessa di Highrise Diving, abituata a sfrecciare nell’aria, tuffandosi dai grattacieli, e a restare sospesa fino all’ultimo istante tra la vita e la morte, si è ritirata dopo la sua ininterrotta serie di successi e vive, apatica e silenziosa, nel suo appartamento affacciato sul vuoto di una metropoli fredda e impersonale? Un mistero, nel quale siamo introdotti a poco a poco attraverso gli occhi e la mente di Hitomi Yoshida, dipendente in ascesa di un’agenzia di marketing umano cui tocca l’incarico di richiamare Diva dal suo esilio volontario e riportarla al suo ruolo di gallina dalle uova d’oro per un sistema che consuma spietatamente i suoi miti sull’altare dell’apparenza. Il tuffo di Riva e l’arrampicata di Hitomi: due movimenti opposti che s’incontrano sul piano della staticità. L’immobilizzarsi dell’una blocca la salita dell’altra, la costringe a rivedere se stessa e il proprio mondo con occhi nuovi, ma le immagini che tali sguardi riportano alla luce provengono da un serbatoio di ricordi che inizia ad affiorare e poi trabocca come ogni rimosso.

La storia di Riva e quella di Hitomi veicolano un mondo vicino al nostro nello spazio e nel tempo, distorto eppure riconoscibile, in cui il cuore pulsante delle città, con i suoi appartamenti eleganti e la gente affermata e nevrotica, è circondato da sterminate periferie immerse nello squallore e nella miseria di una massa amorfa e cenciosa, e tuttavia l’unica ancora capace (forse) di sentimenti autentici. Il romanzo di Julia von Lucadou, opera di esordio di questa giovane autrice tedesca, gioca con i suoi modelli e con la tradizione e li aggiorna al nostro tempo, spersonalizzato e spersonalizzante, un eterno presente in cui i gadget elettronici si sostituiscono ai rapporti veri, le intimità sono violate da sguardi che penetrano dappertutto, ma restano sempre e solo in superficie, e l’adattabilità si misura in parametri che premiano l’efficienza e la competizione.

Modelli e tradizione. Quelli interni alla letteratura antiutopica, con ambienti urbani che ricordano la fantascienza sociologica degli anni Sessanta e Settanta, le città-alveare di polvere e cemento alla James Ballard o alla Thomas Disch di 334 (qui sublimate nella rarefazione – di sentimenti, di pensieri, di corpi – dei quartieri alti, in conformità alla tendenza allo sfumare via nel virtuale dei nostri tempi, o precipitate nel sudore e nella fisicità dei quartieri subalterni), in cui la posizione sociale determina la distanza dal centro, con relativi privilegi, e tutto si svolge su un piano di meccanicità impersonale che svilisce gli impulsi più autentici e li smorza in una parodia di efficienza e vitalità:

“La città se ne sta lì, con i suoi ponti che si ergono l’uno sull’altro. Sembrano confondersi in un labirinto, eppure ordinano e guidano il traffico. Le macchine scorrono a una velocità uniforme, a distanza regolare. Le colonne aprono a ventaglio in corrispondenza delle intersezioni delle strade e un istante dopo riprendono il loro percorso, come fili di perle disposti ordinatamente una dopo l’altra. Dal punto di snodo che riesco a vedere dal mio ufficio si diramano otto strade, che si intersecano e si sovrastano. La più alta arriva quasi a metà dei grattacieli adiacenti. I ponti si allungano in tutte le direzioni, ovali e a forma di otto, e poi di nuovo dritti.”

Questa idea di futuro si unisce nella Tuffatrice a una dimensione di proiezione tecnologica in cui la cultura digitale assume il centro della scena, come in un episodio di Black Mirror al quale si sovrapponga una matrice di diverso tipo e che passa anche attraverso modelli più tradizionalmente letterari, ricordandoci un altro scrittore diviso come Lucadou tra la Germania e la Svizzera, scomparso esattamente cento anni prima che questo romanzo venisse alla luce, nel 1918: il Frank Wedekind che attraverso i funamboli e gli artisti circensi, così come Lucadou con la sua tuffatrice, descrive l’ebbrezza della vertigine, la trasgressione temporanea delle leggi della necessità, la gioia del corpo che libera se stesso nel balzo nel vuoto e nella padronanza del gesto acrobatico, nell’equilibrio estremo del salto che pone in prossimità della morte e, sfidandola, la vince e la trascende:

“I suoi occhi seguono il corpo che precipita, lo osservano da vicino e notano l’estrema precisione con cui ruota prima in orizzontale e poi in verticale, si raccoglie su se stesso e infine si distende di nuovo, nel giro di poche frazioni di secondo. L’istante successivo è il terreno a riempire il suo sguardo, le si mozza il fiato in gola: la donna sta cadendo a tutta velocità e rischia di schiantarsi, l’asfalto reso rovente dal sole sembra vicinissimo. Ma poi il corpo dell’atleta schizza in verticale, verso l’alto, sospinto dalla modalità volo del Flysuittm attivata all’ultimo momento possibile, meno di un secondo prima dell’impatto, e allora può sentire il fiato che esce dalle bocche dei presenti, un sospiro di sollievo collettivo. La folla applaude, la tuffatrice si innalza come una freccia verso il cielo.”

Condizione sublime e provvisoria, quella dell’acrobata, ma capace di mostrare una via di uscita dall’impasse della massificazione. Non per tutti, tuttavia: e il romanzo riprende qui il classico schema della fantascienza sociologica, con il protagonista, un giovane quadro dirigente ben inserito nell’elite dominante, che si rende conto a poco a poco delle contraddizioni insite nel mondo al quale appartiene, dell’iniquità del sistema, e inizia il proprio personale cammino di affrancamento, finendo per passare “dall’altra parte”, perdendosi e al tempo stesso ritrovando se stesso. Una storia vecchia, ma raccontata con sorprendente complessità e freschezza, dalla quale alla fine si esce con un senso di smarrimento (la vertigine del salto nel vuoto), storditi e grati.