Gesù conosce la sua sorte, Gesù sa, ma per il prossimo giustiziato nell’ultimo giorno di vita terrena le certezze si sfarinano – lui che è d’origine divina – in domande molto comuni, mute ma non meno incombenti. È probabile che, nell’ultima fase di un silenzio diventato riflessivo al massimo grado, quest’uomo unico sul pianeta Terra esprima cose che intendono essere la cosa stessa. Vale a dire: l’esperienza della morte, e dell’atroce dolore inflittogli dal procuratore attraverso le violenze e le frustate dei romani. Gesù non teme la morte (“ho sempre saputo che mi avrebbero condannato a morte”) ma la crocifissione, di solito riservata ai crimini più disonorevoli. Meglio la decapitazione, pensa, ma Pilato sembra arcistufo del personaggio messogli davanti, della folla inviperita, di quelle stregonerie che indispettiscono molta parte del popolo in attesa dello “spettacolo”. Dunque crocifissione sia.
Amélie Nothomb, risoluta “mistica” della letteratura francese, e annualmente pronta a divulgare la sua inesauribile fantasia, in quest’ultimo libro raccoglie e rimanda al lettore il racconto di sé dell’uomo più famoso del mondo mentre si trova alle soglie della propria morte. A Gesù preme enunciare considerazioni sul circo allestito intorno alla sua persona, alla farsa che in qualche modo sorprende lui stesso. Si chiede come mai i destinatari dei suoi atti soprannaturali, dei cosiddetti miracoli, ora gli ritorcano contro accuse e rozze contumelie. Lui sa quanto puzzi il redivivo Lazzaro? Gli sposi di Cana si sentono umiliati dall’eccellenza del vino improvvisamente comparso al loro banchetto, il cieco ritornato alla vista si lamenta di un mondo orribile, al lebbroso mondato nessuno fa più l’elemosina. E così via, raccogliendo litanie orribili di fronte all’uomo che non reagisce, che sembra calmo ma non lo è. Ora la sua anima vacilla, sa quanta sofferenza comporti la crocifissione, sa che lo aspetta una notte in cui la paura sarà anche peggio. Sa che questo voleva Pilato.
Nothomb si prende il privilegio di un racconto in cui Gesù, finalmente, manifesta l’intimo pensiero su quel mondo, sulla natura del popolo a cui si è mischiato durante tre decenni di vita, sulle donne amate e desiderate: fra tutte Maria Maddalena, la Maddalena di cui si è innamorato a prima vista, e Maria, la madre “migliore di me”, tanto che resta lontana quando lo inchiodano alla croce per non intensificare la pena. Mai così tanto incarnato, pensa il Cristo, mentre descrive le atrocità inflitte sul suo corpo attraverso la verve mimetica e il lucido illuminismo dell’autrice: quando la calma si congiunge al dolore, la rivelazione è davvero compiuta.
La sete (soif in francese), da cui il titolo del libro, unita all’amore e alla morte, è la “tripletta” vincente, ciò che rende presente l’uomo a sé stesso e agli uomini. Più che morire, nulla si può per essere presente agli altri. Le mie azioni, pensa Gesù in punto di morte, non mi hanno mai reso chiare le conseguenze, e solo ora da inchiodato me ne rendo conto. Senza contare che la sottomissione a mio padre, con la scandalosa e interminabile messa a morte, contiene un errore madornale. Sono nato innocente, continua il Cristo, ma come per tutti è arrivato presto il guasto, senza nemmeno sapere perché. Ho talvolta disobbedito al padre, a cominciare dalla Maddalena, e dunque il castigo “era già deciso”.
È chiaro che questi sono i pensieri di Amélie, che in prima persona non si risparmia, e di quell’uomo che a conti fatti doveva per forza averne di uguali. Gesù è interamente corporeo, anche ironico (in qualche modo polemico col padre) e innamorato del proprio corpo, in cui la sete è davvero promessa di un ristoro ineguagliabile. La meschinità latente assomiglia al diavolo perché bisogna aver paura di chi teme il diavolo più che il diavolo in persona. E il soldato che gli allunga una spugna imbevuta lo fa letteralmente “morire di piacere” come fosse un bicchiere d’acqua. Quanto è buono il gusto dell’aceto! Liquido sublime in un posto dove l’acqua manca del tutto. La gioia del bere è l’apoteosi, il punto finale e cruciale di un’esistenza legatissima alla terra. Questo Gesù pensa, e pronuncia attraverso la scrittura di Amélie sino all’atto finale. “È morto”.
Ma Gesù/Amélie continua, ama il momento in cui la madre avvertita da Maddalena giunge al Golgota, con lievi tratti d’ironia aderisce alle opere d’arte sparse per il mondo in cui si vedono le spoglie del figlio nelle braccia di Maria. Si commuove (e ci commuoviamo) davanti alla Pietà della basilica di San Pietro, dove Maria “sembra avere sedici anni” e il rapporto fra lui e sua mamma è invertito. Intanto gli eventi corrono, la presenza non viene meno neppure con la morte, Gesù è sempre presente, è questa la sua inarrivabile natura, mai distratto, e mai dimentico di chi ama. Il resto della storia procede con gli incontri, che ammette non siano del tutto comuni pur se non proprio rari: i morti sono sempre stati visti, da che mondo è mondo, in ogni luogo. Casi anche celebri, aggiunge con un pizzico di amara vanità. Ma avverte, rispettate il silenzio dei vostri morti perché tornare è fastidioso, molto più dolce è essere morti. Per quanto gli riguarda, l’unico rimpianto è la sete poiché l’atto del bere è magnifico e, in conclusione, per provare la sete “occorre essere vivi”.
L’ultimo capitolo di Sete è il supporto tremendo che Amélie porge a noi, e soprattutto a Gesù, perché l’intera storia si redima da concetti senza dubbio “allucinanti”. Fede, amore, mancanza di oggetto reale, distorsioni che contrastano il calcolo delle probabilità, attitudini che comportano l’assoluta solitudine. Amélie Nothomb non lo sapeva ancora, ma in epoca di Coronavirus la fragilità del suo Gesù, unita alla lucida comprensione dei fatti, diventa il contraltare glorioso di questi nostri giorni.