Che i termini fondamentali della poetica di Gerard Manley Hopkins, inscape e instress, siano comparabili alla quidditas e alla haecceitas di Duns Scoto è un’acquisizione critica abbastanza consolidata. Che altresì l’“oggetto” e l’“occasione-spinta” del Montale delle Occasioni siano lata gemmazione del dittico hopkinsiano è una congettura forse più ardua, ma non inverosimile. Ciò confermerebbe la fortuna europea di uno dei maggiori poeti inglesi dell’Ottocento (i suoi testi furono, però, pubblicati postumi soltanto nel 1914), la cui opera ci è restituita oggi nella bella versione di Viola Papetti per Einaudi. Nell’Oxford English Dictionary l’inscape è definito come “la qualità essenziale o individuale d’una cosa”, dando particolare rilievo alla sua “unicità” caratterizzante; l’instress è invece “la forza e l’energia che sostiene l’instress”. Un esempio che potrebbe spiegare in concreto la peculiarità di questa strategia lirica è la notissima S’accende il martin pescatore…: nell’avvampare improvviso dell’uccello – citato anche da Philippe Jaccottet in Et, néanmoins – c’è la contingente “energia” dell’instress, ma dietro a essa, nel cuore di essa è nascosta la presenza altra, la “qualità essenziale”, ovvero Cristo che “gioca in diecimila luoghi, / bello nelle membra”. Questo perché “ogni cosa mortale fa una cosa e sempre quella: / dirama l’essere che entro ognuno ha dimora”. Il gheppio, l’allodola, i pioppi sono allora “cose chiazzate”, emblemi della “bellezza screziata” prodotta da Dio: “Tutte le cose contrarie, originali, frali, strane; / quel ch’è instabile, lentigginoso (chi sa come?) / con lesto, lento; dolce, amaro; abbagliante, torbo; / Egli pro-crea la cui bellezza mai muta: / lodatelo” (Bellezza screziata). In tali versi, inoltre, si notano le tipiche storture sintattiche con l’omissione dei nessi grammaticali e l’isolamento simbolico delle funzioni aggettivali.
La fede di Hopkins – gesuita e sacerdote cattolico a Londra, Liverpool e Glasgow – appare freschissima, viva e fuoriesce dalla pagina con inaudita sicurtà: “Il mondo è carico della grandezza di Dio. / Fiammeggerà, come fulgore da percossa lamina” (La grandezza di Dio). “Guarda! Una fioritura di marzo, come sui salici infarinati di giallo! / Questo è invero il granaio; dentro dimorano / i covoni. Questo steccato a tratti scintillante serra lo sposo / Cristo in casa, Cristo e sua madre e tutti i suoi santi” (La notte stellata).
Altro tema fondamentale delle poesie è Maria che, secondo Papetti, nella speculazione hopkinsiana partecipa alla “natura di tramite, perché è colei che si apre per le infinite nascite del Cristo, per l’avvento di infinite Nazaret”. “Figura di suono” – mentre Gesù è “figura di grammatica” –, ens in quantum ens ed “Essere materno che regge l’Essere”, Maria è immortalata in una canzonetta agile come Il Magnificat di maggio o nel solenne poemetto La Beata Vergine paragonata all’aria che respiriamo: “Dico che siamo avvolti / dalla misericordia tutt’attorno / come dall’aria: questa / è Maria, e più per il suo nome. Lei, fantastica tela, preziosa veste, / ammanta il pianeta colpevole, / poiché Dio lascia che pregando / lei dispensi la sua provvidenza”.
L’edizione a cura di Papetti, uno degli eventi poetici di questo 2022, è completa nelle sue parti: una larga introduzione critica che comprende anche i tratti salienti della vita del gesuita, un nutrito elenco bibliografico, un commento ricchissimo che segue le liriche e infine il lucido (e ludico) contributo di Giorgio Manganelli, I poeti miracolati della nuova Inghilterra (una recensione del ’48 edita originariamente sulla Gazzetta di Parma). È quanto di meglio ci possiamo aspettare, in termini scientifici, dalla riproposizione di un autore straordinario come Hopkins, secondo Christopher Ricks “il poeta più originale dell’età vittoriana”.