Con il consueto ritardo rispetto alla pubblicazione in patria (anno 2017), arriva finalmente in Italia il libro di memorie dell’eccentrico scrittore australiano Gerald Murnane. Come abbiamo potuto apprendere dal semiautobiografico romanzo d’esordio Tamarisk Row, del 1974, il padre di Murnane era uno scommettitore che aveva posseduto e addestrato cavalli, e lo stesso scrittore ha sviluppato una passione per l’ippica fin da quando, ancora bambino, ascoltò per la prima volta la cronaca – una sommessa cantilena – di una corsa di cavalli, appunto, trasmessa dalla radio di famiglia. Di questo trattano i ventisette capitoli/racconti che compongono il libro, dell’amore dello scrittore – il cui nome figurava tra i favoriti al premio Nobel per la Letteratura 2023 assegnato poi a Jon Fosse – per le corse dei cavalli, benché confessi già nelle prime pagine di non esser mai salito in sella a uno di loro.
Cresciuto in un ambiente cattolico, Murnane realizza ben presto che anche la più sentita delle messe domenicali non riesce ad arricchire il suo mondo interiore, mentre le corse dei cavalli sì, sono in grado di dargli ogni sorta di emozioni e di nutrimento intellettuale, trasformando l’ippica da semplice sport a una specie di vocazione talmente alta da sentirsi autorizzato a esentarsi dalle occupazioni terrene. Chiuderà uno degli ultimi capitoli ammettendo d’aver consacrato gran parte del tempo libero della sua vita adulta a farsi gli affari suoi, cioè a seguire le corse e a lasciare libera la mente di prendere posto in un’immaginaria riunione ippica senza fine. Non solo. Una delle cose che lo ha strappato alla fugace idea avuta da ragazzo di darsi al sacerdozio, è stata la convinzione che nessuna immagine mentale di Dio sarebbe riuscita a sostenerlo per un’intera vita di castità mentre, se avesse potuto dedicarsi completamente all’ippica, avrebbe facilmente rinunciato a una fidanzata o una moglie: “La mia fede religiosa poggiava su fondamenta davvero deboli paragonate alla mia fede nel – come dovrei chiamarlo? – mondo dei sogni creato dalla vista di quei drink dai colori così ricchi e dal suono mellifluo dei nomi dei cavalli.”
Trattandosi di una raccolta di ricordi, di impressioni e di sogni a occhi aperti, è probabilmente il libro meno complesso dello scrittore australiano, e non mancano momenti di ironia e di tenerezza: racconta, per esempio, come nella sua stanza all’Università dove insegnava scrittura creativa, aveva appeso i ritratti di quella che considerava la sua trinità personale: la scrittrice Emily Brontë, lo scrittore Marcel Proust e Bernborough, un cavallo che vinse quindici gare consecutive nel 1946.
Ci racconta anche di un singolare accordo con la moglie Catherine per quando uno dei due fosse passato a miglior vita: chi si fosse trovato “altrove” avrebbe mandato all’altro il segnale precedentemente concordato per comunicare che un mondo spirituale, per quanto invisibile, esiste. I termini del patto prevedevano che il primo dei due a morire avrebbe reso possibile che il superstite potesse scommettere, il primo sabato dopo la propria morte, su un cavallo vincente con quote venti a uno. L’ormai vedovo Gerald – che, tra l’altro, deve il suo nome a un cavallo da corsa e questo lo considera un segno di distinzione – il giorno stabilito si reca all’ippodromo: vince, e anche se non ricorda più la cifra esatta incassata, ci dice d’esser certo che per il cavallo vincente su cui aveva puntato, gli venne pagata una quota che risultò di venti dollari e pochi centesimi per ogni dollaro scommesso.
La schiettezza di questi ricordi rende evidente come Murnane sia serenamente consapevole di quanto è particolare la sua personalità: oltre alle notizie sull’autore ormai di dominio pubblico, come l’avversione alla tecnologia, l’odio per i viaggi e l’oceano, veniamo messi al corrente del suo amore per le mappe, dell’esistenza nel suo studio di misteriosi archivi contenenti migliaia di nomi di fantini che disputano infinite gare in ippodromi di universi paralleli, della conclusione che la scrittura ha un vantaggio sulla lingua parlata perché ci si può prendere tutto il tempo di cui si ha bisogno per scegliere con cura la singola parola, del fatto che ritenga crudeli il corteggiamento e le usanze matrimoniali della sua epoca, perfino barbariche, e che il suo attaccamento verso certi brani musicali è giustificato solo perché la melodia riesce a evocare in lui immagini di corse di cavalli ritenendo che l’ippica tiri fuori il meglio delle persone e che, di conseguenza, i frequentatori degli ippodromi siano una categoria per lo più virtuosa.
La sincerità usata da Murnane per raccontarsi mi spinge a confessare che da quando ho terminato la lettura di queste particolari memorie, non riesco a togliermi dalla mente l’idea, secondo me meravigliosamente consolatoria, di poter ricevere un segnale dall’altro mondo, così come confesserò che, distratta dalla magia di questi capitoli, nonostante le oltre duecentocinquanta pagine di scommesse, fantini, scuderie e ippodromi avevo dimenticato che il titolo del libro non si riferisce a un modo per lenire la sofferenza, ma al nome di un cavallo che Murnane, una volta, invocò con un urlo rompendo così il silenzio delle pianure australiane magistralmente descritte, tra l’altro, nel suo impalpabile romanzo Le Pianure (Safarà, 2019).