Tamarisk Row è un libro bellissimo e chi l’ha scritto, Gerald Murnane, un tipo stravagante. L’autore, classe 1939, non ha mai preso un aereo, ha paura di nuotare e non è mai uscito dai confini dello Stato australiano di Victoria, dove risiede; non adopera computer né cellulari, ma solo una vecchia macchina da scrivere che usa con un dito, e gli addetti ai lavori mormorano sia in odore di premio Nobel per la letteratura.
Tamarisk Row risale al 1974, ma arriva in Italia dopo Le pianure edito nel 1982, altro libro di grande fascinazione. Mentre Le pianure presenta una trama un po’ incorporea e un’atmosfera più rarefatta, in questo lavoro d’esordio la trama è maggiormente presente e i personaggi meglio delineati. Per apprezzare il romanzo, però, bisogna fermarsi e leggerlo lentamente, con calma e molta attenzione, possibilmente nella solitudine di una stanza silenziosa, perché è una narrazione sommessa, espressa sottovoce; se ci si riesce, allora si gode in toto ogni pagina, la storia non ti sfugge dalle dita, ti arriva tutta, compresa la magia del microcosmo di Clement Killeaton – un ragazzino di nove anni, sognatore di altissimo livello – che vede il mondo attraverso i colori delle sue biglie, così come i registi (nel recente film The Fabelmans, il regista Steven Spielberg lo spiega benissimo) filtrano la realtà con l’occhio della camera capace di mettere in luce i soggetti che cattura. Perché le biglie di Clement, nelle sue mani, non sono più soltanto dei pezzi di vetro ma cavalli da corsa lanciati al galoppo, e i colori non sono delle semplici descrizioni ma rappresentazione poetica della rifrazione luminosa. Il cortile della modesta casa di Clement non è più uno spazio chiuso, ma un universo dominato da un interminabile ippodromo celato dalla polvere e dalle tamerici e abitato da un popolo di scommettitori che palpita al ritmo della corsa dei cavalli; e persino la voliera del suo vicino non è più un semplice ricovero per uccelli, ma uno dei tanti indefiniti luoghi in cui si avventura il ragazzo.
Il libro di Murnane non è solo una lettura scandita da capitoli brevi, periodi lunghi con scarsa punteggiatura e pochissimi dialoghi, ma una miscellanea di argomenti: l’attrazione per le mutandine degli altri, le prime pulsioni sessuali, il bullismo dei compagni di scuola, la famiglia, il fascino di certi insegnanti, le punizioni corporali come corollario dell’educazione cattolica, i misteri della religione – da giovane Murnane si era avvicinato al sacerdozio –, il mondo degli adulti e quello delle corse. L’Australia che ci viene descritta, non è solo un paese circondato dall’oceano ma un luogo di luce accecante, polvere, afa, reticoli verdi, orizzonti sconfinati, infinite e misteriose praterie.
Nella conclusione della prefazione scritta dallo stesso autore, nel prendere le distanze dall’osservazione che il capitolo finale possa essere considerato un flusso di coscienza – credo sia per questa impressione che in molti lo hanno paragonato a James Joyce – Murnane fa notare che, mentre le frasi del paragrafo a tempo debito giungono al termine, la cronaca della corsa non finisce veramente: è proprio così, le biglie di Clement continuano a galoppare, sprizzando colori, sollevando polvere, scatenando emozioni ancora per giorni dopo aver chiuso il libro perché l’immaginazione – se lasciata libera, svincolata dai tanti condizionamenti che arrivano dall’esterno – può creare mondi meravigliosi in cui rifugiarsi, ritrovarsi, e dunque crescere.
I paragrafi dedicati alla Gold Cup, corsa delle biglie-cavallo nell’ippodromo della sua immaginazione, sono magnifici e particolarmente intenso è quello intitolato I cavalli prendono posto per la Gold Cup; lo si trova a pagina 136, ma lo si deve stanare perché i tipi delle edizioni Safarà (casa editrice indipendente) hanno omesso l’indice che, peraltro, ci fosse stato, sarebbe stato lunghissimo, più di molti dei paragrafi del libro:
“Col numero uno ecco Monastery Garden, con una sfumatura viola, solitudini verdi e la bianca luce del sole, per il giardino che Clement Killeaton sospetta si trovi subito dietro all’alto muro di mattoni del cortile della sua scuola – il giardino dove pregano e meditano i preti sotto alle foglie perfino nei pomeriggi più caldi. Col numero due Infant of Prague, in raso seducente e stoffa intessuta d’oro che si vorrebbe toccare, per l’immagine di Gesù bambino a cui Clement cerca di pensare ogni volta dopo la Comunione. Col numero tre Mysteries of the Rosary, e le sue profondità incandescenti di blu che racchiudono come gioielli le stelle sfuggenti, per i grani del rosario che Clement scorre delicatamente tra le dita mentre riflette sulle gioie e i dolori e la gloria di Nostra Signora […]”.