Simenon in Connecticut scrive di Montmartre e di personaggi – maschi e femmine – dediti al vino e alle gite verso i bistrot sparsi fra una chiusa e l’altra dei canali di Francia. A Ovest di Parigi, pochi chilometri e si arriva in luoghi quasi di villeggiatura, gli anni Cinquanta sono ricolmi di fine settimana dove i figli si lasciano dai nonni e gli sposi, più o meno maturi e più o meno annoiati, si ritrovano clienti di locande umide e leggermente incuriositi da abitanti locali dediti alla pesca del luccio. O alla pesca di carni, non più fresche, sotto le gonne di padrone e governanti. L’atmosfera è quella riccamente illustrata dal Simenon maschilista che conosciamo e che, proprio per questo, riesce a scovare le ossessioni e le fratture radicate nelle coppie, tormentate da guai di diversa natura: da quelli riguardanti la salute a quelli riguardanti il denaro.
Bob è il padrone di un bistrot, gioviale e allegramente sfaccendato, che viene ritrovato cadavere, presumibilmente annegato, poco distante da una diga frequentata dalle chiatte che risalgono la Senna. In mezzo ai convogli i più esperti si avventurano in canoa nonostante il pericolo causato dai convogli, dal groviglio di lenze e arbusti. Nel paese di Tilly tutti si chiedono cosa sia successo. Incidente o suicidio? Simenon si sofferma sulla moglie di Bob, Lulu, dalla voce a tratti roca e a tratti squillante che può contagiare con la sua radiosità e il corpo tondo. In quel luogo dove il vino bianco porge agio agli spiriti, già di mattina quando abitanti e villeggianti si confondono per dar spazio a lavori quotidiani e speranze di pescatori appena usciti dalla schiera dei dormiglioni.
Fra questi il medico “molto di base” Charles Coindreau, amico di Bob, comincia a farsi delle domande, e qui inizia lo slalom narrativo di Simenon che conduce Charles nelle qualità scontrose ma non prive di sorprese di una vera e propria indagine – senza poliziotti invadenti ma con sviluppo di passioni incrociate fra l’uomo, la moglie e le amanti di Bob. Non si tratta di un copione già visto, non sono presenti femmes fatales e drink pretenziosi, ma semplici “bianchini” consumati a ogni giro d’ora e donne dalle azioni semplici, verso cui Simenon non ha molti – come si diceva – riguardi. Sono grossolane nello spogliarsi, hanno tensioni allucinate se qualcuno, come il medico, le avvicina oltre l’auspicabile decoro.
La coscienza di Coindreau è un po’ ruvida, per lui giungere alla soluzione finale – con tutta la percentuale di alcol prevista dalla trama – significa aprire un varco nei misteri del proprio animo contrapposto a quello di sua moglie. L’atmosfera acquatica ha leggi proprie, Simenon le conosce bene (al lettore basti recuperare Una Francia sconosciuta, uscito di recente), così in questo romanzo immerge i suoi personaggi in una specie di teatro plein soleil che li trasporta dalle stradine di Montmartre alle acque profonde della Senna e dei canali dove ci si rilassa o forse si fa finta. Coindreau non ha più l’amico ma si ritrova a dover gestire un’eredità umana di complicata lettura – non c’è legge che possa punire i lasciti ammuffiti di chi se ne va. In qualunque modo l’abbia fatto Bob, non c’è dubbio che la sua nonchalance ha messo l’amico di fronte all’insondabilità della vita – insieme alla moglie e alle amanti. Chi è uscito dalla storia ha messo sotto il naso di tutti l’acre aroma dei conti che non tornano.