Le imperscrutabili connessioni della sincronicità hanno fatto sì che il romanzo dell’Apocalisse zombie, pensato e progettato da George A. Romero nel corso di quasi trentasei anni, uscisse postumo e completato da un altro, proprio nei mesi in cui sta deflagrando nel mondo una pandemia fin troppo reale, che pare la concrezione in termini propri della cupa metafora da lui immaginata fin dal suo primo film, La notte dei morti viventi (The Night of the Living Dead) del 1968, e dilazionata a intervalli lungo tutta la sua carriera cinematografica.
Romero non ha solo definito un nuovo spauracchio mediatico, il walking dead, ma lo ha sottratto al limbo del Supernatural Horror per calarlo in una attualità socio-virale concreta e in una prospettiva totalmente materialistica. Rubando il concetto a Nick Land, potremmo definire l’epopea da incubo immaginata dal regista un’iperstizione (hyperstition): cioè, secondo la definizione del controverso filosofo accelerazionista britannico, un “elemento di cultura effettuale che si fa realtà, attraverso una massa immaginaria funzionante come potenzialità che viaggia nel tempo”. In termini meno astrusi, un’entità finzionale che si rende reale, un fenomeno culturale immaginario che una volta enunciato condiziona il corso degli eventi, realizzandosi reatroattivamente. L’esempio più calzante di Land è il concetto di cyberspazio in Neuromante di William Gibson (1984): “l’idea fittizia di cyberspazio contribuì al flusso di investimenti che in breve tempo l’avrebbero trasformato in una realtà tecnosociale”. In Romero è invece, con minore letteralità, l’idea di apocalisse virale, di spillover, di scatenamento epidemico contro natura indotto dalle contraddizioni politiche, sociali ed etiche di una civiltà in marasma finale. L’allegoria del revenant cannibale diventa retroazione del collasso mortifero del capitalismo post-fordista e della globalizzazione neoliberista.
I materiali che formano il mito reinventato da Romero sono umili e popolari. Se volessimo tracciare una breve storia del walking dead lo riconosceremmo figlio legittimo del drive in e del grindhouse, il plebeo cinema di exploitation. Poche le sue ascendenze colte. Lo zombie non vanta antesignani letterari come hanno altri più nobili non-morti: il vampiro – con cui condivide il morso contagioso – più di tutti; la creatura di Frankenstein – della quale è parente stretto, ma con decisive differenze: non deve alla hybris scientifica la sua resurrezione, non ha nessun “padre”, né il minimo barlume di coscienza o autoconsapevolezza ma è puro riflesso cieco; o, in misura assai minore, la mummia e il lupo mannaro (quest’ultimo tecnicamente non è nemmeno un non-morto…), spauracchi collegati al sovrannaturale e non all’infranaturale. Conta però almeno qualche antenato pulp, soprattutto nei racconti vudu del reverendo Henry S. Whitehead (1882-1932) – arcidiacono nelle isole Vergini caraibiche ed esperto del folklore locale, collaboratore della rivista Weird Tales e amico di H.P. Lovecraft – e due prototipi cinematografici come L’isola degli zombie (White Zombie, 1932) di Victor Halperin con Bela Lugosi e Ho camminato con uno zombie (I Walked with a Zombie, 1943) di Jacques Tourneur, prodotto dal grande Val Lewton. Qui però lo zombie – secondo l’etimologia creola del termine, indissolubilmente legato al folklore dei Caraibi – non è ancora un morto rianimato ma essenzialmente un’opera della magia nera vudu: cosa o persona affatturata, luogo infestato, vittima in trance.
Bisogna aspettare il 1954 e il geniale romanzo di Richard Matheson Io sono leggenda, in cui la figura classica del vampiro viene innestata in un contesto di fantascienza apocalittica, per muovere il primo significativo passo nella direzione dello zombie-movie attuale come nuovo e iperstiziale archetipo horror. Il successivo film – primo fra i molti adattamenti cinematografici del romanzo di Matheson – L’ultimo uomo sulla terra (1964) di Ubaldo Ragona e Sidney Salkow, con Vincent Price, dedraculizza i vampiri eliminando alcune delle loro stigmate tipiche come i canini sporgenti, e aggiungendone altre come l’incedere caratteristico: implacabile, impacciato e minacciosamente rallentato. Si arriva così in sordina alla genesi definitiva: nel 1968 George A. Romero – ragazzaccio nato a New York nel 1940 da padre cubano e madre statunitense – gira La notte dei morti viventi: il tema apparentemente sovrannaturale – i morti resuscitano e diventano cannibali – trascende il contesto gotico per aderire a quello fantascientifico: la causa del “morbo” è da ricercarsi, forse, nello spazio; e il terrore privato e singolo diventa sociale – l’apocalisse e le reazioni dei vari gruppi umani a esso – e globalizzato con esplicite ricadute politiche (il finale per esempio, in cui il protagonista, nero, unico sopravvissuto, non muore tra le fauci dei morti cannibali contro cui ha lottato per tutto il film, ma viene abbattuto proprio dai vigilantes, bianchi, che avrebbero dovuto salvarlo). Romero non definisce ancora i living dead “zombie” ma “ghoul” (demoni divoratori di cadaveri presenti anche nelle Mille e una notte) – sarà la stampa a utilizzare il termine per la prima volta – le caratteristiche del neo-sottogenere, comunque, ci sono già tutte. Prima del 1978, anno del secondo – e maggiore – episodio del ciclo romeriano dei morti viventi, Zombi (Dawn of the Dead), il cineasta di New York gira almeno un altro film che sarà il capostipite di un sottogenere parallelo e strettamente collegato allo zombie-movie, l’infection-movie, con La città verrà distrutta all’alba (The Crazies, 1973): una delle pellicole più radicali dell’epoca nel denunciare gli esperimenti con le armi biologiche del governo statunitense e le oscure manovre di depistaggio e occultamento dei propri letali maneggi all’opinione pubblica. Un inizio davvero fulgido in cui tutto quanto il sottogenere avrà da dire viene espresso e sintetizzato già da subito: un cinema della crudeltà che denuncia ben altre crudeltà governative nascoste sotto l’ipocrisia delle verità ufficiali (il classico avrà poi un più che discreto remake nel 2010, con lo stesso titolo e sotto la direzione di Breck Eisner). I “crazies” sono i parenti stretti degli zombie, figure dell’inquietudine moderna, simboli dell’uomo-massa che, decerebrato e assuefatto, un evento accidentale può dirottare dal ruolo di consumatore passivo a quello di predatore attivo, trasformando la presunta e pretesa “società civile” da gregge in branco, da mandria in orda. Come i Crazies contaminati da un virus di laboratorio derivato dalla rabbia, anche i Dead romeriani – non più Living, perché un problema di copyright impedisce al regista di riutilizzare il termine: il coproduttore Dario Argento aggirerà il problema distribuendo in tutti i paesi non anglofoni il film, rimontato in versione leggermente più breve e dinamica e con una diversa colonna sonora dei Goblin, sotto il titolo che lo renderà eponimo del genere: Zombi – proseguono l’aspra critica radical alla società statunitense che il cineasta persegue con coerenza fin dalle sue prime opere (fuori dal sottogenere di cui qui ci occupiamo ricorderemo in particolare Season of the Witch del 1973 e Martin del 1977, in cui la denuncia del perbenismo piccolo-borghese, del bigottismo religioso e delle strutture oppressive della famiglia tradizionale che trasformano una casalinga frustrata in una strega e un adolescente disadattato in un vampiro è più forte e dura).
Zombi è probabilmente il film più riuscito di Romero: il budget dignitoso, il colore e gli effetti gore profusi a piene mani da Tom Savini lo rendono altrettanto convincente ma meno ruvido e scarno del precedente Night of the Living Dead; l’ambientazione nel Monroeville Mall, un autentico, immenso centro commerciale – scenario praticamente permanente di tutto il film – conferisce ulteriore realismo alla storia ridefinendo completamente le coordinate del neo-gotico che, da questo momento in poi, potrà definirsi propriamente urban gothic; in più la metafora anticonsumista del solito intellettuale sinistrorso emerge fin troppo esplicita: il centro commerciale è l’unica possibile Arca di Noè dei sopravvissuti della ex-società del benessere e perfino gli zombie, pavlovianamente, tornano ad aggirarsi nella loro post-vita per gli unici luoghi che hanno costituito la ragione, il senso, il baricentro della loro pre-morte. Il film è un successo travolgente e incassa 40 milioni di dollari solo negli USA divenendo un cult (come già il precedente Night), non solo fra gli appassionati di horror, e producendo un’invasione di falsi sequel, imitazioni e varianti e travalicando in altri media come i fumetti, la musica rock e i videogiochi elettronici (fra tutti Resident Evil, che avrà a sua volta ampie ricadute cinematografiche: un ciclo iniziato nel 2002 da Paul W. S. Anderson e proseguito per cinque episodi fino al 2012): il mondo-zombi è ormai nato.
Romero continuerà l’epopea negli anni seguenti polemizzando talvolta con gli imitatori e gli epigoni o, più spesso, mantenendo nei loro confronti un atteggiamento d’indifferenza e di signorile superiorità da patriarca fondatore di un nuovo immaginario orrorifico. La vera e propria “saga dei morti” si articola in una trilogia che allude ad una progressiva catastrofica invasione della terra (il senso si perde con i titoli italiani): “la notte dei morti”, “l’alba dei morti” e “il giorno dei morti”, Night of the Living Dead, Dawn of the Dead e Day of the Dead (Il giorno degli zombi, 1985), più un quarto film che conclude il primo ciclo narrativo, La terra dei morti viventi (Land of the Dead, 2005), in cui abbiamo visto l’epidemia sorgere, infuriare ed estendersi fino a conquistare la Terra (nei primi due film); poi i sopravvissuti umani hanno cercato di organizzarsi e trovare delle forme di convivenza e di controllo dei loro pericolosi coinquilini; questi a loro volta hanno iniziato a modificarsi ed evolversi cominciando a provare emozioni più complesse e tentando di tornare a una parvenza della loro vita precedente: in entrambi gli schieramenti emergono dei leader capaci di orientare svolte, positive o negative, al corso degli eventi (nei due film più tardi). A questa saga più o meno coerente si aggiungono due film paralleli ma esterni a essa e appartenenti a un distinto universo narrativo: Le cronache dei morti viventi (Diary of the Dead, 2007) che sposta l’inizio della pandemia ai giorni nostri, adeguando la tecnologia dei media: un mondo di cellulari, computer e TV satellitari in cui una troupe televisiva documenta in diretta l’erompere dell’invasione zombi (Romero riprende intelligentemente l’idea del mockumentary e dell’uso in soggettiva della camera, tipica di tanti horror più o meno contemporanei da Blair Witch Project in poi: i vari Rec, Paranormal Activity, Cloverfield, Quarantena, ecc. che, se vogliamo, rimontano tutti al modello originario del Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato del lontano 1980); e, infine, L’isola dei sopravvissuti (Survival of the Dead, 2009), l’ultimo film di Romero, in cui il regista applica la struttura del western allo zombie-movie tentando nuovi e non sempre più efficaci sviluppi narrativi. Nel frattempo altri autori hanno propagato il mito realizzando vari, dignitosi remake dei tre classici capostipiti zombici romeriani: ben due per La notte dei morti viventi, il primo realizzato nel 1990 da Tom Savini ed il secondo nel 2006 da Jeff Broadstreet addirittura in 3D; uno di Zack Snyder per L’alba dei morti viventi nel 2004 (con la variante di zombie, questa volta, veloci); e uno di Steve Miner per Il giorno degli zombi nel 2008.
Lo zombi assurge ormai al ruolo dell’icona horror forse più influente dei media: privo di sex-appeal e di aspetti seducenti resta quasi del tutto immune all’edulcoramento romantico che ha ridotto il vampiro a cicisbeo o a mascotte per adolescenti nel ciclo di Twilight o analoghi pseudogotici contemporanei; il suo valore di spauracchio sgradevole e ripugnante rimane immutato (con alcune eccezioni: alcuni film recenti tentano, con risultati dubbi, di renderne “presentabile” la figura, sdoganando zombi innamorati – Warm Bodies, di Jonathan Levine del 2012 – o ridotti al ruolo di animali domestici e pets migliori amici dell’uomo – Fido di Andrew Currie del 2006); altrettanto dicasi delle sue valenze metaforiche di carattere politico: se il vampiro è un aristocratico, lo zombie è solo un proletario senza nome né destino (Gianfranco Manfredi lo aveva ben capito fin dal 1977, nella sua straordinaria canzone-manifesto “Zombie di tutto il mondo unitevi”). Immagine di un infranaturale senza trascendenze, empia resurrezione di corpi senz’anima, il cui cannibalismo ripropone una blasfema eucaristia dove la morte si nutre della vita: non del sangue e del soffio vitale draculianamente lambiti e succhiati a sorsi, ma – trionfo del materialismo e della macelleria – della carne, del cervello e delle interiora, strappati a morsi da corpi malamente eviscerati e squartati. Allegoria intercambiabile del capitalismo, del consumismo, della lotta di classe in assenza di veri soggetti rivoluzionari, l’Apocalisse zombie diventa reale nella propagazione virale inarrestabile della prassi necrotizzante e tanatologica di una società che divora se stessa: nell’attualità scaturisce e deflagra l’aberrazione prospettica dell’iperstizione.
Fin dal 1981 Romero progetta un romanzo che definisca anche letterariamente il modello dello zombie-holocaust: un archetipo che slitti nel tempo e coincida intercambiabilmente con gli Stati Uniti ancora invischiati nella guerra del Vietnam o immediatamente successivi, come nei film del 1968 e del 1978 (Night of the Living dead; Dawn of the Dead); o a quelli tecnologici 2.0 del film del 2007 (Diary of the Dead) e del romanzo appena uscito, in cui si fa riferimento al Ground Zero del 2001, alla guerra in Iraq, al terrorismo islamico e agli eventi principali della contemporaneità. L’Apocalisse zombie, come la spada di Damocle, incombe sempre su di noi, in ogni momento e situazione storica, finchè le contraddizioni del capitalismo dilanieranno la nostra società.
Purtroppo nel 2017 Romero muore senza aver terminato il testo letterario che – un po’ come è riuscito a fare David Cronenberg con Divorati (Consumed) del 2014 – avrebbe voluto porre a suggello della sua opera, quasi a indennizzarsi delle delusioni dei troppi progetti cinematografici irrealizzati per l’indisponibilità di finanziamenti e adeguate produzioni hollywoodiane. La famiglia contatterà per portare a termine il lavoro inconcluso un giovane scrittore da sempre fan sfegatato del regista newyorkese, Daniel Kraus, collaboratore di Guillermo Del Toro per la novelization del film premio Oscar La forma dell’acqua e della serie Disney Trollhunters. Non ci è dato sapere di preciso quanto della stesura finale del corposo volume sia da attribuire a Romero e quanto a Kraus. A giudicare dalla nota posta dal coautore in chiusura, sembrerebbe che la concezione generale della trama e due capitoli di più di cento pagine siano da riferire al primo e tutto il resto, con la stesura definitiva, al secondo. Kraus, comunque, si attiene fedelmente allo stile e agli intrecci tipicamente romeriani e pare sempre di vedere scorrere un film di Romero lungo le pagine: finalmente un kolossal dal budget illimitato in cui lo scenario passa da un obitorio, come nel primo capitolo, alla bidonville suburbana di un quartiere periferico e degradato, allo studio di registrazione di un network via cavo, o alla piattaforma di atterraggio di una portaerei in missione nel Pacifico. Le descrizioni sono appetitose come e più delle sequenze dei film, ad esempio: “Suo padre batteva le mani, con le dita tese in avanti, contro la rete da pollaio. La rete gli tagliava le dita facendone cadere delle mezzelune, come unghie. […] Ritirò le dita malridotte e sbatté la faccia contro la rete. Il naso, le labbra e le guance si appiattirono. Un reticolo regolare di esagoni di sangue emerse da tutta la faccia. La lingua gli uscì dalla bocca e premette contro la rete lacerandosi al centro. […] Sangue purpureo sgorgò da ogni esagono. Ma lui continuò a premere finché la rete da pollaio non gli penetrò nella faccia fino al cranio. La sua faccia divenne un mosaico di venti o venticinque esagoni di carne. Un pezzo, con il labbro superiore destro, cadde come pasta da uno stampo per dolci, rivelando lunghi denti gialli e una parte della mascella grigia. Gli altri esagoni tremavano, pronti a cadere anche loro. Le due metà della lingua, completamente aperta, si agitavano in maniera indipendente”. Yummy! Dicono gli americani…
Il brano riportato non tragga in inganno il lettore: non si tratta solo di splatter a buon mercato. Come già fu per i film, anche il romanzo non smentisce mai una solida carica di critica sociale e politica: sarebbe stato impossibile per Kraus sminuirla senza tradire Romero nel suo costante engagement sul piano civile e ideologico. Lo dimostra anche il fatto che il libro venga tradotto e pubblicato in Italia da una casa editrice come La nave di Teseo, assai più attenta ai fenomeni colti che alla narrativa di genere. Più efficace nel descrivere l’erompere e il dilagare della pandemia, con le sue ricadute sociali e psicologiche, che il successivo precario equilibrarsi delle forze in campo e il tentativo di trovare una qualche soluzione al problema – per altro, esattamente la stessa cosa può dirsi del ciclo cinematografico – il monumentale tomo, che scorre via efferato e disturbante, diventa memento e viatico per accompagnare la prossima quarantena.