Leggere quest’antologia di racconti nei giorni immediatamente successivi al ventesimo anniversario dei “fatti di Genova del 2001” significa sentirsi catapultati all’interno di una determinata storia politica e al tempo stesso esserne costantemente esclusi, allontanandosi da un’ormai impraticabile politica della nostalgia e percependo, così, l’inequivocabile distanza – spesso presente anche nell’autentica vicinanza – da quello che ha potuto e può significare l’espressione “fatti di Genova del 2001”. Una distanza che si può tentare, così, di mettere a bilancio, ma anche a frutto.
Di questo lavoro si fanno carico, in primo luogo, Michele Vaccari, nell’introduzione al libro da lui curato, e Federico Zappini, nella postfazione, per poi rilanciarlo anche nei confronti di narratrici e narratori dell’antologia, chiamati in questo modo a far parte di un “coro polifonico” – scrive Zappini – “senza spartito da seguire, basato su dissonanze armoniche più che su parti definite. Dinamica collettiva che si fa assemblea intorno a un fuoco che neppure la peggiore tempesta riesce a spegnere. Flusso di pensiero e azione – per addizione, giocoforza, per tentativi ed errori – che si trasforma in corteo montante, non di reduci né di avanguardie, non di apologeti o di disillusi”. In realtà, le dissonanze all’interno di questo coro sono così tante che “apologeti” e “disillusi” continuano a fare capolino nelle pagine dell’antologia; tuttavia, se la celebrazione o, per altri versi, il disincanto non prendono mai il sopravvento, la residuale possibilità di una lettura più divergente che convergente sembra inevitabile, e per almeno due ordini di motivi.
Da un lato, i “fatti di Genova 2001” sono stati un trauma collettivo, come segnala fin dalla prima pagina Michele Vaccari; davanti a questo dato, sostenere (come scrive Vaccari) che “ognuno di noi è fondamento di comunità” (e quindi “andiamo a recuperarci, anche a costo di farlo uno a uno”) e che quella comunità è ancora possibile non è soltanto un legittimo, e condivisibile, richiamo alla ri-occupazione degli spazi della politica. Nella sua icastica – e perciò affascinante – formulazione quest’appello può esporre, per un verso, al rischio dello spontaneismo, o del wishful thinking, e dall’altro al pericolo di una certa disattenzione verso ciò che è stato il movimento, o meglio i movimenti, dopo l’esperienza diretta del trauma. D’altra parte, l’auspicata rifondazione della comunità – o meglio, della collettività – deve, legittimamente, passare attraverso fasi di lucidità critica e autocritica. Se uno dei temi ricorrenti in più narrazioni è però la constatazione che “eravamo tutti uguali” – nonostante l’affermazione di una posizione critica rispetto all’omologazione culturale e politica prodotta dall’economia globalizzata – una risposta plurale come quella offerta da un’antologia di racconti rischia di legittimare, innanzitutto, le idiosincrasie culturali e politiche dei singoli autori. Per paradosso, è proprio su quest’ultimo versante che si può pienamente apprezzare la ricchezza dei racconti e delle prospettive presentate in Circospetti ci muoviamo, grazie alla presenza di autori e autrici che, in varia misura, hanno vissuto in prima persona “i fatti di Genova”; o non hanno partecipato pur avendone, in linea teorica, la possibilità; o, infine, non hanno partecipato perché non ancora al mondo. Si va, dunque, dall’ipotesi di una vendetta come rivendicazione covata negli anni e in ultima istanza impossibile, come nel racconto La parte del torto di Paola Ronco, alla necessità della ricostruzione di una storia famigliare che prende poi vie diverse nei racconti di Giuseppe Fabro (L’appuntamento), Matteo Porru (Se viene il temporale) e Ndack Mbaye (Per chi resta). In quest’ultimo caso, la storia dei “fatti di Genova” è inserita in una narrazione particolarmente stratificata, legata a una storia di migrazione che rende effettivamente conto di uno degli interessi fondamentali del movimento che manifestò a Genova (per semplificare: “libera circolazione delle persone, non soltanto di merci e capitali”), scovandone anche alcune aporie e contraddizioni. Si tratta anche di un modo per rilanciare verso il presente un nucleo tematico fondamentale, culturale e politico, con uno scatto in avanti che è comune, in questo caso a livello di immaginario, al racconto Gadda Gadda Boy di Orso Tosco, virato verso territori più chiaramente weird.
Un altro gruppo di narrazioni sembra soffermarsi più nettamente sulle difficoltà e, per altri versi, sulle potenzialità della testimonianza, come si può osservare accostando Non di Daniele Vicari – racconto ottimamente orchestrato, che si conclude con una frase lapidaria: “Non ho detto una parola e non sono l’unico” – al racconto di Nicoletta Vallorani, già autrice di un romanzo legato a Genova 2001 (Visto dal cielo, Einaudi, 2004), che insiste invece sul tropo, tipico di certa letteratura femminista, della scrittura come tessitura di trame spesso spezzate: “Io sono la custode delle storie. Io sono quella che raduna, raccoglie, ricompone. Io sono la donna del telaio e la narratrice invisibile. Io sono il chiodo nel tempo”.
Un possibile punto di mediazione si trova nel racconto di Valentina Maini, Un’idea come un’altra, che già dal titolo insinua il sospetto post-ideologico che per molti e molte l’idea di “andare a Genova” non fosse ben meditata, portando all’esito aporetico di risultare “tutti uguali”, magari anche omologati. Cruccio post-ideologico che era già al centro del suo splendido esordio romanzesco, ambientato in tutt’altro contesto storico e politico, La mischia (Bollati Boringhieri, 2020), e che qui diventa occasione per una narrazione del trauma che, tuttavia, non esclude la possibilità di “un fuoco che neppure la peggiore tempesta riesce a spegnere”, come scrive Zappini nella postfazione. Pare opportuno soffermarsi su quest’ultimo punto perché, a vent’anni da Genova e prima della politica, di una nuova politica, può essere utile riproporre ancora una volta (come suggerisce indirettamente Maini, insieme agli ottimi contributi che completano l’antologia firmati da Ivan Carozzi, Roberta Covelli e Veronica Galletta) il confronto fra gli aut-aut dell’ideologia e le necessità della scrittura letteraria.
È da questo rovello fondamentale – segnalato e affrontato anche in opere pubblicate nel 2021, appartenenti ad altri ambiti della produzione letteraria e intellettuale, come il libro di poesia di Massimo Palma, Movimento e stasi, per Industria&Letteratura, o la ricostruzione storiografica di Gabriele Proglio ne I fatti di Genova. Una storia orale del G8, per Donzelli – che si può ripartire, nella consapevolezza, forse più collettiva che comunitaria, dei rischi e dei vantaggi di tale percorso. Circospetti ci muoviamo si presenta come lettura preziosa per approdare a ciò che Zappini chiama, in chiusura di libro, “un modo diverso di fare rivoluzione”.