Credo che per molti di noi che vent’anni fa eravamo nelle strade di Genova, il ricordo di quei tre giorni sia uno dei più dolorosi. E ancora, per chi è di Genova, sia un continuo transitare in luoghi che hanno assunto un significato enorme, un’evocazione continua che sale da incroci, trasuda dai muri delle case, rimbomba dalle saracinesche e che riconduce, inevitabilmente, a quella luce abbacinante di luglio e a quei rumori così diversi da quelli quotidiani, senza il rumore del traffico, ma delle pale dell’elicottero, delle sirene, delle urla, degli spari. Luoghi come via Tolemaide, piazza Alimonda, piazzale Kennedy, corso Italia, e poi le scuole Diaz e Pascoli nel quartiere borghese d’Albaro e la caserma di Bolzaneto davanti alle ghiaie bianche del torrente Secca. A vent’anni di distanza, anni pesanti per ogni libertà civile e politica, per i diritti del lavoro e per l’ambiente, per il problema della povertà e dei confini, giusto per l’anniversario si sono rincorsi una nutrita schiera di ricordi artefatti, di interpretazioni perniciose e nostalgie del Ventennio, di irrazionalità capitaliste e anticapitaliste, assieme a qualcosa che è più del ricordo e della ricostruzione, ma necessità di prosecuzione e rilancio di una lotta politica globale. Globale perché il campo di battaglia è il mondo intero, globale perché è una lotta che attraversa tutte le classi, dai più poveri ai più ricchi del pianeta.
Per chi evoca la Terza guerra mondiale, posso dire che questa è già in corso da anni, dovunque con caratteristiche proprie, e gli effetti sono migrazioni di massa, sfruttamento industriale, precarizzazione del lavoro, saccheggio delle risorse primarie, accumulazione sfrenata da parte di pochissimi, repressione, divieti di sciopero, colpi di stato. Nei vent’anni che ci separano dalla contestazione alla convention del Group of Eight di Genova è evidente che tutti i temi che erano in discussione nei forum di confronto politico del Movimento si sono evoluti in termini peggiorativi e che l’avidità della classe dirigente mondiale ha incrementato la sua capacità di sfruttamento e di svilimento di ogni essere umano.
Nessun rimorso intitola il volume collettivo di Coconino Press, una posizione che matura attraverso disegni e testi curato dal collettivo Supporto legale, un’associazione tra le molte, che ha inteso curare la memoria di quei giorni senza ridurre il lavoro politico e le tragedie del G8 di Genova ai fatti più eclatanti della mattanza della scuola Diaz e delle torture nella caserma di Bolzaneto. In realtà, credo che il potente apparato di propaganda mediatica che si attivò prima e successivamente alle giornate di Genova a difesa del lavoro di repressione, di fronte alla madornalità della violenza espressa e alla sua estesa documentazione, abbia scelto proprio questi avvenimenti indifendibili come propri capri espiatori per nascondere tutto il resto che quelle tre giornate hanno rappresentato. Un occultamento realizzato solo all’interno del sistema mediatico e rivolto agli spettatori, perché chiunque sia stato anche marginalmente legato a questi fatti è consapevole della complessità del sistema di violenza pianificata che è stato espresso a Genova. Nessun rimorso rivendica un’unitarietà di quei giorni sia negli argomenti che si intendeva porre e imporre il Genoa Social Forum, sia per estensione della violenza fuori controllo e gratuita che è avvenuta per le strade, e che ha documentato migliaia di reati contro le persone mai perseguiti, ignorati. Con questo non si vuole assolutamente minimizzare quanto è accaduto alla conclusione delle giornate di Genova, quando il Movimento in ritirata aveva abbandonato le strade per tornare alle proprie città a curare ferite fisiche e intellettuali, quando, dopo un’aggressione a manifestanti disarmati e inermi, spesso pacifisti e non violenti, durata due giorni e che, evidentemente, non aveva appagato completamente tutti coloro che già avevano picchiato, e ci si è accaniti con i ritardatari che cercavano un po’ di riposo nell’atrio di una scuola.
Quando la mattina di domenica 22 luglio entrai nella scuola destinata a diventare per sempre “la Diaz” avevo pochissime informazioni su quanto era accaduto. La città era vuota, assolata, nessuna traccia di forze dell’ordine; solo le squadre del comune al lavoro per pulire. Poche persone giravano stordite nel piazzale antistante e nella palestra del piano terra. Si guardava in silenzio il sangue e gli oggetti sparsi, senza capire. Magliette, berretti, zaini abbandonati, uno spazzolino da denti, medicine calpestate, fogli di carta. Difficile immaginarsi qualcosa di concreto da quella visione, neppure le strisciate di sangue sul parquet. Incredibilmente la scuola non era stata posta sotto sequestro o sorvegliata, e chiunque poteva entrare, guardare e toccare quello strano lungo. C’era un incredibile silenzio, o forse, ho pensato poi, le orecchie non recepivano le voci e i rumori che necessariamente dovevano riempire quelle stanza. Sembrava un luogo dove fosse passata un’alluvione, ma senza il fango a cui Genova era abituata; solo gli oggetti per terra, alla rinfusa, che avevano perduto per sempre il loro proprietario. Che ne era di quella gente? Ci si scambiava qualche frase senza conoscersi, ma si sapeva che erano stati tutti picchiati e arrestati. Bolzaneto, in quelle ore, era solo il nome di un quartiere operaio della Val Polcevera, un luogo di fabbriche e di una bella e orgogliosa vita sociale. Grazia Francescato, allora portavoce dei Verdi, entrò nella scuola camminando lentamente, difficile immaginarne i pensieri. Le immagini del ricordo, chiuse in qualcosa che è biologia, si confondono con le fotografie e i filmati, ma c’è qualcosa che rimane isolato, un particolare che riesce a restare staccato e distinto da tutto. Scendendo dai piani alti, nelle aule dei bambini dove sedie e banchi erano capovolti e accatastati negli angoli, dove i ragazzi erano stati braccati solo poche ore prima, mi ritrovai un una scala laterale. Tra il marmo dei gradini e una ringhiera d’acciaio, era incastrato un ciuffo di capelli biondi e ricci. Un uomo o una donna, che mi posso solo immaginare, trascinato per i piedi sbattendo la testa contro tutti i gradini di quella scala. Qualcuno, e forse più d’uno, gridando affinché il terrore aumentasse, aveva trascinato quell’uomo o quella donna per i piedi fino al piano terra. Qualcuno ha nella sua testa quest’altra parte del ricordo, qualcuno rimasto anonimo e di cui la Storia non saprà nulla: forse un padre, oggi forse nonno, che sfiora bambini e giovani. Uscii dalla scuola, i capelli biondi e ricci l’ultima immagine rimasta. Qualcuno poi li avrà tolti, per pulire.
Tra i molti temi che i testi del libro rilanciano c’è quello, doveroso, della rivendicazione della piattaforma politica dell’anti-G8, dei metodi e degli obiettivi delle manifestazioni. È doveroso ricordare che la piattaforma condivisa delle piazze tematiche era, ognuno con la propria cultura e i propri mezzi, contestare, disturbare, impedire il regolare svolgimento del summit. E l’idea era quella di braccare in ogni parte del mondo, come era avvenuto a Seattle, le istituzioni e le loro rappresentanze, per praticare una volontà condivisa di cacciarli dalla loro posizione di potere e ribaltare il sistema di potere esistente. Questo obiettivo era da realizzare con ogni mezzo possibile, con le preghiere e le canzoni, con le urla e gli sberleffi, con la pressione fisica, con gli scudi e le protezioni per resistere alla violenza. Questo obiettivo, e soprattutto l’idea che da Davos a Strasburgo fino a Wall Street, ogni apparizione pubblica dei potenti della Terra fosse minacciata dalle folle, con un crescendo di capacità organizzativa e di mobilitazione, ha evidentemente convinto che il Movimento dovesse essere colpito con estrema durezza e attraverso l’applicazione di una totale immunità informale (ma sostanziale) per chiunque avesse compiuto violenza verso i manifestanti. Solo così può essere spiegata la violenza che è dilagata sin dalle prime ore di venerdì 20 luglio 2001, con l’attacco al corteo dei Cobas in piazza Paolo da Novi, proseguita con le botte ai pacifisti e alle associazioni religiose in piazza Marsala e piazza Manin, per finire con l’assalto al corteo di via Tolemaide. Quando oggi si richiede verità e giustizia sui fatti del G8 di Genova vuol dire non limitarsi a condannare gli “eccessi” della Diaz e di Bolzaneto, ma ribadire il concetto che il conflitto contro chi gestisce questa società mondiale è inevitabile e implicitamente legato a una distribuzione del potere assolutamente iniqua, e che non sia accettabile pensare che un pacato confronto e richieste educate possano smuovere i secolari egoismi della classe dirigente. Quindi la violenza di piazza contro i manifestanti va letta, dal primo istante, nel progetto di “spazzare via ogni opposizione, ogni resistenza, ogni legittimità di costruire forme altre di essere politica”.
Ancora il G8 ha segnato un nuovo paradigma della politica, stabilendo la maggiore importanza delle merci rispetto alle vite umane. Già era diventato evidente che alle merci deve essere garantita una assoluta circolarità tra gli stati, mentre per gli esseri umani sono limitate o negate possibilità di spostamento (un diritto assoluto e planetario che viene ristabilito con la guerra, se necessario), e che ha trovato conferma nello squilibrio tra gli esiti giudiziari del G8, dove i reati contro le cose (vetrine, bancomat, auto) hanno avuto pene maggiori dei reati contro le persone (percosse, torture, umiliazioni). Dunque il Capitale ha deciso a Genova di ammonire il mondo intero ad accettare lo stato di cose presenti perché non sarà consentito di immaginare e realizzare un mondo diverso da questo.
Queste e altre riflessioni, che trovano spunto dal libro, sfilano nei testi dedicati a tutti i momenti di quelle giornate, raccontando soprattutto il dopo con la difficile prosecuzione giudiziaria e la sostanziale minimizzazione delle reali responsabilità. Dai fumetti e dalle immagini escono una serie di nuovi montaggi e messe a fuoco che lavorano sia sulla memoria personale sia sulla memoria collettiva. La morte di Carlo Giuliani è l’episodio su cui si è affastellato il maggiore lavoro di elaborazione grafica a partire dalle foto degli scontri, quasi a rappresentare la necessità di molti punti vista, a guardare quei pochi secondi dagli occhi di chi c’era e di chi ha ascoltato i racconti.
Per chiudere con le parole di Erri De Luca, “è stato commesso il più deliberato atto criminale commesso dalla forza pubblica dagli anni Settanta in poi”. Per questo non possiamo fermarci, non possiamo dimenticare. Grazie per questo libro.
Con i disegni di Alepop, Francesco Barilli e Manuel De Carli, Marta Baroni, Michele Benvenuto e Riccardo Lestini, Valerio Bindi, Blu, Samuele Canestrari, Alberto Corradi, Claudio Calia, Lorena Canottiere, Francesco Cattani, Marco Cazzato, Daniel Cuello, Frenzy, Roberto Grossi, Maicol&Mirco, Danilo Maramotti, Martoz, Vito Moretta, Nova, Giuseppe Palumbo, Rita Petruccioli, Paper Resistance, Ratigher, Davide Reviati, Maurizio Ribichini, Filippo Scòzzari, Squaz, Alessio Spataro, Stratolin, Francesca Vartuli, Lucio Villani e Zero Calcare.