Genova. Una tempesta elettrica avvolgeva la Val Polcevera. La vigilia di Ferragosto 2018 il traffico sull’autostrada che collega Genova alla Riviera di Ponente e al Piemonte era disciplinato e fluido: in mattinata gli ultimi vacanzieri, uniti agli addetti del commercio, nonostante il nubifragio, la furia degli scrosci d’acqua e i fulmini tutt’intorno, stavano raggiungendo il porto o i luoghi di lavoro in città e nelle periferie.
Alle 11.36 chi sopraggiungeva dopo una curva stretta e improvvisa (gli svincoli “micidiali” del territorio genovese) trovò il vuoto davanti a sé: tra nuvole, pioggia e visibilità quasi azzerata, 43 persone volarono nell’abisso che aveva preso il posto del Ponte Morandi. Il ponte sul Polcevera era sparito, crollato, in una manciata di secondi aveva trascinato nel precipizio automobili e autocarri con dentro 43 persone ignare. 60 metri più giù. Quel giorno un sms mi avvertì, preciso e diretto come una saetta: “È crollato il Ponte Morandi!”.
Panico nella valle, a Genova, e reazioni attonite in Italia e nel mondo. Il viadotto, inaugurato nel 1967 e in qualche modo caro agli abitanti della Val Polcevera, percorso da miliardi di automezzi, oggetto architettonico stimato per l’arditezza e la fisionomia, simbolo della modernità, aveva ceduto dopo mezzo secolo di servizio. “Collassato”.
In basso, in via Walter Fillak e nel greto del Polcevera, sulla ferrovia tra Sampierdarena e Certosa, quartieri popolosi di case e fabbriche (molte le ex-fabbriche), centinaia di tonnellate di ferro e calcestruzzo, decine di morti precipitati, e le case miracolosamente intatte di via Porro sotto i monconi del ponte rimasti lì sopra, minacciosi e terribili. Gli abitanti corrono via da quel girone infernale dove arrivano immediatamente centinaia di vigili del fuoco, forze dell’ordine, cani, volontari, mezzi di ogni tipo e mani che si muovono frenetiche, esplorano, scavano alla ricerca di superstiti. Tutti pensano che a viaggiarci sopra poteva esserci chiunque: i genovesi utilizzavano quel ponte, quel tratto autostradale, come fosse una tangenziale, come collegamento tra i vari quartieri periferici di Ponente e Levante.
In un attimo la Val Polcevera, orientata da Nord verso il mare, si trova isolata dal resto della città: la città ora è spezzata in due. Dall’alto del Monte Figogna, ottocento metri sopra la valle, la Madonna della Guardia, protettrice di Genova e amata da fedeli e non, osserva l’immane tragedia e forse ha impedito che questa assumesse proporzioni colossali: se il traffico fosse stato quello di ogni altro giorno, fatto di code a passo d’uomo, di pullman carichi e colonne di Tir, e se quel pezzo di ponte rimasto sospeso fosse piombato sugli otto condomini popolari, le vittime sarebbero state un migliaio.
Passato il nubifragio, il mondo intero guarda inorridito le immagini della catastrofe. A Genova il sindaco quasi urla ai microfoni che Genova non è vinta. Ma tutti sanno che la città, ora, è spezzata.
Franco Manzitti, giornalista notissimo a Genova (passato di capocronista al “Secolo XIX”, direttore de “Il Lavoro” e caporedattore per la Liguria de “La Repubblica”) ha da sempre seguito le vicende politiche e tecniche del Ponte Morandi. Dopo la tragedia ha intervistato a lungo i sindaci e gli ingegneri che si sono avvicendati sul territorio (servizi messi in onda da “Primocanale”, emittente televisiva regionale di primo piano) senza risparmio di notizie e cronache inedite sulla storia (e preistoria) delle infrastrutture genovesi.
Dalla costola di queste interviste e da chi ha vissuto le strade cittadine poste sotto il Ponte Morandi, le sue stesse carreggiate, nasce un libro informato e commovente capace di svelare e chiarire quanto è successo prima e dopo il 1967, anno in cui la struttura venne inaugurata alla presenza del presidente Saragat.
Lunghi anni di diatribe politiche e progetti, taluni pressoché visionari, strombazzati in una valle densa di fabbriche, raffinerie, stabilimenti figli della modernità, in mezzo a colline ricche di vegetazione e abitate da una popolazione di antica stirpe. Avvento, pieno sviluppo e poi decadenza lungo decenni in cui il commercio cambiava radicalmente, il porto si sviluppava attraverso la novità dei containers e il traffico decuplicava a vista d’occhio.
La Val Polcevera, varco del Nord industriale verso le banchine portuali, diventava ogni anno di più una strettoia soffocante per chi arrivava (e per gli abitanti), costretto a giravolte estenuanti per districarsi nell’ingorgo fantascientifico (chi ha letto James Ballard sa cosa intendo) del traffico urbano. Tutto questo mentre i politici, i partiti, gli imprenditori, la popolazione, avevano visto soltanto il Ponte come nuova creatura, e ogni visione futuribile, Bretella, Gronda, Terzo Valico, era destinata a eterna immobilità. Così come inascoltati gli allarmi diffusi da ingegneri e costruttori – in prima fila il progettista Riccardo Morandi – riguardanti la stabilità dell’opera e il progressivo deterioramento che lo avrebbe fatto giungere al collasso strutturale. Lavori di manutenzione continui da parte della Società Autostrade, a partire dal 1989, ma sempre per provvedimenti limitati, rischiosi per gli operai, e con ogni evidenza inefficaci.
Il libro di Manzitti narra le vicende cittadine, percorrendo l’intero periodo successivo al 14 agosto 2018, capitolo dopo capitolo, tappa dopo tappa, dalla furia di quel giorno maledetto alle vicende dei 700 sfollati: la pena del recupero dei pezzi della vita vecchia, scatolone dopo scatolone due ore di tempo in coppia per quattro volte, prima che i caseggiati vengano demoliti perché sotto i resti del Ponte non si può più abitare. Manzitti li vede, ne raccoglie pensieri e angosce. Li segue nelle nuove dimore rese disponibili dal Comune.
Dalla violenza di quel giorno ai tracciati delle nuove strade, inventati lì per lì, con inedita velocità, alla riapertura della linea ferroviaria, affinché il muro nella valle diventasse valicabile. Fino all’anticipazione emersa dal segreto istruttorio: che la struttura del Ponte Morandi era fortemente compromessa, che il calcestruzzo eroso dal sale e dal vento non ce la faceva più, e che il crollo dunque era annunciato. I numerosi flashback diventano in Manzitti il diario preciso di una città, dei suoi sogni emersi e sommersi, dell’intreccio politico storicamente confuso almeno quanto quello viario, dei timori e dei bisogni di una comunità, di un territorio sempre più minacciato dal clima e dal dissesto geologico, di eventi alluvionali assassini e ribollimenti sociali. “Nero su bianco la sporca verità”, scrive nella commossa prefazione Massimo Donelli.
Il libro di Manzitti è la memoria di questi giorni: lavori durissimi e ricostruzione che non prevede soste nonostante l’evidente complessità dell’inchiesta giudiziaria, amministratori comunali e regionali finalmente concreti e determinati, dimentichi di ideologie partitiche alle prese con i ritardi incomprensibili del governo centrale, l’architetto “genovese” per eccellenza il cui disegno prende forma là dove si costruiscono navi, e la popolazione della Val Polcevera, sobria, decisa, che non ammette superficialità e dimenticanze, e che ha parlato a voce alta nelle strade, nelle assemblee e negli uffici del potere. Cronaca di un crollo annunciato rappresenta per Genova anche la memoria futura, il vademecum delle generazioni che verranno quando il nuovo skyline della vallata sarà compiuto e incluso nel nucleo di una coscienza collettiva dimostratasi fortissima.
Anche grazie a questo libro nessuno dimenticherà quel gigante che meritava ben altre cure, e soprattutto le 43 anime crollate con lui.