Generazioni senza rivoluzioni

Jules Vallès, Il diplomato, tr. Enrico Zanette, Edizioni Spartaco, pp. 309, euro 16,50 stampa

“Durante il colpo di Stato la polizia aveva la spada e uccideva in pieno giorno nelle strade; adesso è diverso. Non si può parlare, non si può stare in silenzio. Le parole vengono colte al volo, i gesti e i silenzi vengono spiati. Oh! La vergogna mi sale come un pidocchio sulla testa. Le mie impressioni di ieri, le mie speranze per l’indomani, tutto svanito, insozzato all’improvviso.”

La strada è un elemento essenziale nell’identità letteraria, giornalistica e politica di Jules Vallès. Per vent’anni Vallès brandisce questo termine come parola d’ordine. Nello stesso momento in cui impone la sua sconvolgente originalità con una serie di articoli su Le Figaro (Les Réfractaires), dove sono ritratti personaggi irregolari e dimenticati, figli di vite sovraccariche di drammi, egli lancia nel giornale L’Événement, nell’autunno del 1865, una serie di cronache dal titolo The Street.

Nel 1867 Vallès fonda il suo giornale, La Rue, nome simbolo per un foglio letterario per obbligo e sociale per convinzione, soppresso dal governo dopo soli otto mesi dalla prima pubblicazione. Per Vallès scegliere la strada significa privilegiare una precisa visione: le persone sono nella strada. Là devono essere cercate. Un discorso valido universalmente, almeno fino a quando il mondo non era stato ancora digitalizzato. E se da lì a pochi anni, nel 1873, Il ventre di Parigi di Émile Zola imponeva – e riceveva dal Ministero della letteratura in via definitiva – la certificazione a nuove istanze, scenari e protagonisti, non sarà altrettanto un caso quando nel 1884 in Italia verrà pubblicato Il ventre di Napoli di Matilde Serao. È la modernità che esplode in tutta Europa e che in ogni dove innesca i medesimi processi.

Jules Vallès però una vera e propria istituzionalizzazione non l’ha avuta mai, sebbene sia stato un personaggio che è stato dentro le vive carni del 1848, così come nella reazione al colpo di Stato di Luigi Napoleone Bonaparte nel 1851 e nel fallito complotto per assassinare il neo imperatore all’Opéra Comique nel 1853. Morale della favola, la storia apprezza le rivoluzioni, tranne quelle del proprio tempo. Tutto questo, e anche di più, sarà raccontato in Le Bachelier, uscito come prima edizione italiana grazie a Edizioni Spartaco, con cura, traduzione e postfazione di Enrico Zanette.

Jules Vallès, nei panni del giovane Jacques Vingtras, novello diplomato, parla di tutto ciò che non è concesso di parlare nella rivoluzione, in un romanzo dalla trama diaristica, ricco di autobiografismo.

“Coprirò sempre le emozioni più intime con la maschera dell’indifferenza e la parrucca dell’ironia”. Jacques è in treno, ha appena abbandonato il suo paesino, Le Puy. Questo si ripromette guardando fuori dal finestrino, diretto a Parigi per riscattare un credito da parte del padre, e per iniziare la sua nuova vita, i nuovi studi. Non rispetterà nessuno dei suoi proponimenti. Jacques si fa cogliere impreparato da facchini, cartomanti, giovani ragazze, presidi squattrinati, coetanei smaniosi. Inibito dalla dura educazione del padre insegnante e dalle premure soffocanti della madre timorata, Jacques è un giovane infantile, e pur in misura diversa, nemmeno troppo dissimile sia dai suoi amici di provincia che ritroverà a Parigi, e nemmeno dai giovani indigeni di città.

È una generazione, la sua, spaventosamente vicina a quella dei nostri giorni. Essi sono troppo evoluti per cedere a simpatie dispotiche, ma troppo beneducati per fare la rivoluzione. Hanno fatto troppi studi per fare i facchini, ma il mestiere di facchino è l’unico a cui possono ambire. Figli inconsapevoli del falso benessere, una malattia che può spingere un giovane a credere che esista nella società una strada consonante a quanto egli offre, chiede, dona. Non è così.

Jacques finisce ghermito nello strenuo vivere quotidiano in cui l’unica preoccupazione è procurarsi da mangiare e bere. Quello che desidera è vivere senza pensare, dimenticare le mortificazioni del liceo, i mali del mondo, l’assenza di corrispondenze tra le sue idee e quelle degli altri. Solo il presente è importante: la cena, il teatro, il vino, il suo cenacolo, il Comitato di amici dissidenti. E fantasticare la rivoluzione tra un’osteria e l’altra, una rivoluzione che non arriva mai, mentre intorno tutto cambia velocemente, le persone, le mode, i comportamenti, Parigi. Questo senso di esclusione, questa incapacità di fronteggiare il proprio tempo, si acuisce dopo l’esperienza dei tre giorni, la sconfitta sulle barricate a seguito delle elezioni presidenziali che vedono la vittoria di Luigi Bonaparte. Da quel momento inizierà per Jacques un lungo percorso nel quale conoscerà la precarietà del lavoro, gli stenti, inaspettate fortune e patetici naufragi. Le sue contraddizioni non sono altro che l’elegante volgarità di una società che non perdona l’intelligenza e i buoni sentimenti, i dubbi e nemmeno le certezze. Jacques ha sicuramente delle colpe, e una di queste è la fretta di vivere che di fatto lo farà arrivare in ritardo, da adulto, ai grandi appuntamenti della vita.

“Feci amicizia con un vecchio operaio dall’aspetto onesto che fin dall’inizio scoraggiò i miei piani: ‘Non vi dannate a diventare operaio. Iniziando così tardi non sarete mai altro che una mezzatacca e, a causa della vostra istruzione, sarete infelice. Per quanto pensiate di essere ribelle, sapete ancora troppo di collegio per apprezzare la compagnia degli ignoranti dell’officina; e nemmeno voi piacerete a loro! non siete stato un ragazzo di strada di Parigi e avete dei modi di fare da signore. Alla fine tutti gli operai sono costretti alla carità, quella del governo o quella dei loro figli. Non avete bisogno di diventare operaio per andare a farvi uccidere su una barricata, se la vita vi pesa! Non pensate solo a voi stesso, a guadagnarvi quella paga da infilare ogni sabato nelle vostre tasche da operaio. È un po’ egoista tutto questo. Non si deve pensare così tanto allo stomaco quando si ha quello che voi sembrate avere nel cuore’”

La rivoluzione di Jacques nasce sui banchi di scuola. Essa non è altro che il desiderio di allontanare i ricordi delle bacchettate, dei suoi intimi conflitti. Dietro la faccia di Napoleone, c’è in realtà quella di suo padre, insegnante di latino e greco. “Non ride mai Rousseau. È manierato, lamentoso; scrive delle cose che non sembrano venire da dentro di sé; si rivolge ai Romani come facevamo noi nelle versioni a scuola. Puzza di collegio. Una pigna, sì, è proprio così. Preferisco Voltaire.”

Vallès, oltre tutto questo, pone a discussione numerosi temi che tratta implicitamente: l’arte e il mestiere dello scrivere, il conflitto tra provincia e metropoli che annulla le identità, le idee che generano solitudine, il perseguire la propria strada che a volte significa essere esclusi, e che porta, per reazione, ad appoggiare posizioni opposte al proprio credo. Chi è escluso una volta, si escluderà volontariamente una seconda. E Jacques sente davvero la rivoluzione, ma si chiede se Robespierre e Saint-Just, non siano una farsa, se dopo i classici della Scuola non ci siano i classici della Rivoluzione, con i presidi rossi e un diploma giacobino. “Una mattina sono andato in place de Grève a vedere se era possibile per un letterato, con la tempra dell’eroe, scendere dall’alto della sua camera e andare tra i muratori a chiedere lavoro. Sono stato preso per un truffatore che voleva nascondersi sotto l’intonaco.”

Finirà anche peggio.