Ge Fei non è forse tra gli scrittori cinesi più conosciuti ai lettori italiani, ma è fuor di dubbio tra i più interessanti e brillanti del panorama contemporaneo: di lui, anni fa, hanno avuto una traduzione nella nostra lingua La cetra intarsiata (Fahrenheit 451, 2000) e l’ormai introvabile Il nemico (Neri Pozza, 2006), grazie rispettivamente a Paola Iovene e Nicoletta Pesaro. Il mantello dell’invisibilità, nella precisa traduzione di Barbara Leonesi e Caterina Viglione, offre l’occasione di trovare un Ge Fei diverso rispetto al passato (l’originale cinese è del 2012), passato dallo zenit della sua scrittura sperimentale e avanguardistica a uno stile più sobrio, per molti versi anche più realistico, punteggiato però da quel surrealismo che era al centro, per esempio, del brivido oscuro e metafisico de Il nemico o dell’inquietante ciclicità de La cetra intarsiata. E che oggi pare sempre più adatto agli occhi dei romanzieri cinesi (e non solo) per cercare di venire a capo di una società all’apparenza sempre più illogica e assurda.
Protagonista e voce narrante del romanzo è il signor Cui, un tecnico che si guadagna da vivere fabbricando e installando impianti audio per ricchi “audiofili”. La madre gli ha lasciato un buon gruzzolo, nonostante sia stata la sorella a vegliarla al capezzale, e non lui; sempre presso la sorella ha trovato rifugio dopo il divorzio dalla moglie, che l’ha lasciato per un altro (poi molti altri), ma è palesemente mal voluto anche da lei e dal cognato. Il signor Cui si rifugia nel distacco dalla società, dove è probabile “che la maggior parte della gente ignori totalmente la nostra esistenza, cosa peraltro meravigliosa! Anche noi abbiamo svariate ragioni per ignorare la società e, nascosti negli angoli più bui, conduciamo soddisfatti la nostra vita da uomini invisibili”. L’apparente apatia del protagonista rispetto ai vari rovesci della vita è bilanciata solo dall’amore per la musica, che però non tutti condividono davvero. Nemmeno i sedicenti intenditori, numerosi nella galleria di bizzarri personaggi che si susseguono; forse nemmeno il lettore, al quale però il signor Cui decide di raccontare la sua storia, rivolgendosi direttamente a noi in seconda persona.
Proprio la superficialità è uno dei perni del romanzo: fatti e persone non devono – non possono? – essere conosciuti nel profondo: “Il fragile foglio di carta che chiude la finestra non nasconde nulla per cui valga veramente la pena strapparlo”. Se, per esempio, ne Il nemico la nebulosa opacità degli avvenimenti cela la mano che infligge pene e dolori ai personaggi, qui è attivamente ricercata dal protagonista: un mantello dell’invisibilità. Così il signor Cui è lesto disinteressarsi di un fatto doloroso avvenuto alla sorella, e a perdonare chi l’ha commesso pur non sapendo nemmeno di cosa si tratta, e si ritrova poi in un rapporto assurdo e paradossale con uno strano personaggio malavitoso: e non toglieremo di certo ai lettori il gusto di scoprire da sé come e se l’estrema incertezza che aleggia sulla vicenda avrà infine soluzione.
Anticipiamo invece uno dei tanti paradossi che Ge Fei suggerisce in questo breve romanzo: se da una parte la determinazione a non scostare le tende tirate sembra essere la chiave della felicità, dall’altra parte è evidente che questa è un’illusione. Altro paradosso è che l’unica cosa veramente autentica è, guarda caso, immateriale: la musica, che appare continuamente come perno narrativo, veicolo di memorie e, forse, unico appiglio rimasto. L’arte è quindi un rifugio – anch’essa un mantello per rendersi invisibili contro l’ostilità circostante – o una chiave per decifrare una realtà apparentemente imperscrutabile? Forse, proprio suggerendo la prima opzione, Ge Fei tiene il campo aperto per la seconda.