Un omaggio a Joseph Conrad soprattutto, e un libro di viaggio con una sua completa e suggestiva autonomia. Gavin Young (1928-2001), giornalista e scrittore britannico, oxfordiano, scrive un libro con tutti gli stigmi tipici della upper class albionica, l’aplomb e l’understatement, quel tocco appena un po’ snob travestito da ineffabile humour e quel fiero dandismo dissimulato sotto la patina ruvida del globe trotter seriale, condivisi, tra gli altri, con il contemporaneo più giovane e più famoso Bruce Chatwin (che pure oxfordiano non era). A queste levigatezze anglosassoni preferiamo forse, magari per campanilismo, le più sanguigne testimonianze dei viaggiatori e orientalisti fiorentini, Fosco Maraini o Tiziano Terzani – che pure un po’ sassoni, se non altro per bilinguismo, erano comunque anche loro, e non è poi certo un caso che fiorentini e sassoni si siano sempre intesi piuttosto bene – ma non stiamo a sottilizzare: il libro di Young è un gran bel libro, perché eccede la dimensione ordinaria del testo di viaggio – usualmente relazione sullo spazio – per diventare invece, più che altro, relazione sul tempo.
Conrad dicevamo, un viaggio nel cuore di Conrad, cioè – quanto allo spazio – lo scenario che vide il giovane Józef Teodor Konrad Korzeniowski (1857-1924) – non un oxfordiano lui, non un turista ma un viaggiatore per lavoro, marinaio, trafficante e capitano di lungo corso – farsi le ossa dell’uomo di mare e assorbire come una spugna i paesaggi, gli ambienti e i personaggi che pochi anni dopo lo avrebbero trasformato, una volta imbracciata la sua terza lingua, quella della maturità, l’inglese (dopo il nativo polacco e il giovanile francese), nello scrittore Joseph Conrad. Lo scenario esteso fra la Malesia e l’Indonesia, da Singapore a Celebes passando per il Borneo e per Giava, che rappresenta forse il Conrad più tipico – non quello anticolonialista dell’Africa di Cuore di tenebra o di Un avamposto del progresso, non quello “politico” del Sudamerica di Nostromo o dell’Europa de L’agente segreto o di Sotto gli occhi dell’Occidente – quello più romantico, se vogliamo, che attraversa opere come Tifone, Gioventù, La linea d’ombra, Freya delle sette isole, Al limite estremo, La follia di Almayer, Un reietto delle isole, Il coinquilino segreto, Il negro del Narciso, Vittoria, e soprattutto la più giustamente celebre di tutte, Lord Jim.
Young non è solo un attento lettore di Conrad e un viaggiatore in proprio intenzionato a ripercorrere con totale precisione e puntiglio gli itinerari del suo beniamino letterario ma un vero e proprio negromante, magico evocatore di fantasmi e di atmosfere. Il suo è un libro sul tempo più che sullo spazio, abbiamo già detto: mentre si sposta da un luogo all’altro, fra Bangkok e Makassar, in cerca, come un detective, delle tracce lasciate dai modelli reali che hanno originato i protagonisti conradiani – Austin Williams, il vero Lord Jim o Charles Olmeijer, il vero Kaspar Almayer, per esempio – compulsando vecchi registri di sperduti cimiteri per ritrovarne la tomba, o ricostruendo faticosamente alberi genealogici per rintracciarne lontani parenti e discendenti da visitare e intervistare, i piani temporali e narrativi si avvicendano e si ingarbugliano. C’è il piano dell’esistenza reale di Conrad, dei suoi viaggi e della sua biografia fattuale; c’è la trasposizione fantastica di questa nella sua opera letteraria, dove Conrad diventa il capitano Marlow, o chi per lui, e i personaggi storici si trasformano in protagonisti letterari, parafrasati più o meno alla lettera da Young direttamente dalle pagine conradiane; c’è il primo viaggio di Young fatto nel 1977 in quegli arcipelaghi, proprio alla maniera di Conrad, cioè sul brigantino a vela di un amico inglese un po’ matto, il Fiona; e c’è il secondo viaggio di Young, al principio degli anni ’90, fatto con mezzi vari e più convenzionali, che chiude le fila del percorso. Ma tutto questo si interconnette, si sovrappone e talvolta si confonde, i diversi paesaggi nel tempo sfumano mutuamente in dissolvenza incrociata, mentre viventi e fantasmi interagiscono in un eterno passato/presente. E non finisce qui, perché Young, tutt’altro che evanescente e attentissimo invece al dettaglio storico, sociale, folklorico, naturalistico e climatico, descrive flora e fauna, popolazioni e usanze, confrontando le sue osservazioni dirette con i testi classici di riferimento su quell’area geografica: in particolare A.R. Wallace The Malay Archipelago, the Land of the Orang-utan and the Bird of Paradise del 1869 e addirittura la scrupolosa relazione di James Brooke, il primo Rajah Bianco di Sarawak. Per un inglese non ci sarà certo niente di particolarmente disdicevole in lui, e Young sa usare la sua fonte con brio e intelligenza, ma qui noi lettori oltre che di Conrad anche di Emilio Salgari, proviamo una strana sensazione, quasi l’effetto di uno sgarbo, di un colpo basso: per noi James Brooke sarà sempre e solo l’arcinemico di Sandokan nel ciclo dei Pirati della Malesia e non c’è proprio verso che neppure tutto il fairplay e la maestria letteraria di Young riescano a rendercelo, in ogni caso e senza il minimo dubbio, anche solo un po’ meno antipatico.