Quando si parla di videogioco ci si riferisce a un’opera multimediale interattiva richiedente l’immersione in un mondo simulato e regolato da leggi tecniche volte a orientare teleologicamente le azioni del gamer, la cui analisi non può prescindere dallo specifico contesto in cui questo è pensato, prodotto e fruito. A partire dalle prime sperimentazioni negli anni Cinquanta, l’universo videoludico si è sviluppato di pari passo a un’accelerata trasformazione tecnologico-comunicativa che ha condotto a quella condizione che Luciano Floridi ha efficacemente definito onlife, in cui esperienze online e offline diventano indistinguibili, su cui si sta sviluppando l’ambizioso progetto Metaverso di Mark Zuckerberg.
Lo sviluppo creativo e tecnologico del videogioco ha inevitabilmente finito per sconfinare il territorio del mero intrattenimento ludico tanto da investire persino ambiti come quelli lavorativi, militari, politici ed economici. Non a caso, nello spiegare l’essenza del cosiddetto surveillance capitalism, basato sulla profilazione finalizzata all’indirizzo comportamentale degli individui, Shoshana Zuboff ricorre all’esempio di Pokémon Go, un videogioco commercializzato nel 2016 di tipo free-to-play, funzionante con i principali sistemi operativi mobili, basato sulla realtà aumentata geolocalizzata tramite Gps, che prevede la cattura di personaggi virtuali disseminati all’interno dell’ambiente reale in cui è necessario muoversi armati di smartphone.
Attraverso strumenti di gratificazione, Pokémon Go indirizza i giocatori verso attività commerciali inserite all’interno dell’itinerario imposto ai giocatori allo scopo di ottenere un afflusso di potenziali clienti. Ricorrendo a meccanismi propri del mondo digitale e a sistemi di gratificazione, esattamente come nel videogioco, da tempo esperti del trattamento dati elaborano strategie sempre più sofisticate per orientare il comportamento, o direttamente i desideri, degli esseri umani in maniera funzionale agli interessi commerciali.
La pratica della profilazione finalizzata alla vendita di beni e ricorre persino a misurazioni di laboratorio svolte da esperti di neuromarketing sulle attività del cervello e del corpo degli individui intenti a prendere decisioni di acquisto al fine di elaborare efficaci strategie individualizzate sulla base dei dati condivisi dai singoli individui sui social media, durante la navigazione in Internet, raccolti dai sistemi di rilevamento delle emozioni attraverso sistemi di intelligenza artificiale e altre aree di ricerca, come documentano sia Diletta Huyskes sia Jane Wakefield nelle loro rispettive ricerche.
Nell’ambito del neuromarketing si studia come i biomarcatori, i processi inconsci e le relative attivazioni cerebrali influenzano il comportamento del consumatore. Su questo si rimanda allo studio di Willet et alia e al volume di Rumen Pozharliev e Patrizia Cherubino.
L’aggregazione di dati biomedici e misurazioni dell’attività cerebrale possono consentire di stabilire relazioni causali che in futuro potranno essere utilizzate come guida dai professionisti del marketing per costruire le loro campagne pubblicitarie o dai produttori per essere precisi nella promozione di un prodotto specifico (Garasic, p. 130).
L’ambito videoludico si rivela particolarmente efficace nella raccolta dati e nella profilazione tanto che in esso, come suggerisce Matteo Bittanti in Game over, si può cogliere un’anticipazione della logica del panottico digitale che contraddistingue i social media.
Grazie alla possibilità di cogliere in modo diretto i valori, gli ideali e le fantasie degli utenti sulla base delle loro interazioni con i videogiochi – qualcosa che non tutti sono disposti a condividere con i motori di ricerca, a indicare nei messaggi di posta elettronica e a rivelare attraverso le abitudini di acquisto – i videogiochi rappresentano preziosi complementi all’enorme mole di dati già raccolti da Google e Amazon. Proprio come i giochi hardcore sono stati uniformati dall’uso di espedienti quali mondi aperti, conquiste e trofei, possiamo aspettarci che la libertà promessa e la continuità del cloud gaming si accompagni a una sempre maggiore sorveglianza e a una monetizzazione più pervasiva e continua (Pascal, p. 475).
Ribaltando la concezione che vuole l’attività ludica come necessariamente improduttiva affinché si distingua dal lavoro (Calois), in ossequio a un’idea di gioco che lo intende non come fine a se stesso, ma come mezzo per ottenere obiettivi esterni a esso, con il termine gamification (ludicizzazione), che inizia a diffondersi in apertura del nuovo millennio nell’ambito della progettazione/produzione videoludica, si indica il ricorso ad architetture di game design in contesti non ludici, al potenziale motivazionale del gioco per incentivare una trasformazione comportamentale.
Non è difficile immaginare con quali scopi in ambito commerciale, lavorativo e di controllo sociale si ricorra alle meccaniche ludiche (punti, livelli, premi, beni virtuali e classifiche) applicate ad altre caratteristiche del Web per incrementare l’engagement dei partecipanti.
Con il processo di ludicizzazione il punteggio, anziché limitarsi a determinare il vincitore di una gara, viene elevato a ‘misurazione oggettiva’ di qualità esterne al gioco, insomma “il ‘punteggio’ diventa sinonimo di dati – un “equivalente universale” capace di ridurre ogni attività quotidiana a un sistema statistico, seguendo la logica della quantificazione dell’esistenza” (Pascal, p. 462). Attraverso la ludicizzazione dei videogame i sistemi di punteggio vengono pertanto finalizzati a “rendere quantificabile (dunque misurabile, commensurabile ed esportabile) il comportamento di un utente all’interno di un videogioco” (Pascal, p. 463).
Lungi dall’essere introdotte per soddisfare desideri dei gamer, le notifiche dei risultati sono state esplicitamente imposte agli sviluppatori di giochi dai produttori delle console non tanto per ottenere informazioni riferibili all’esperienza dell’utente in uno specifico gioco, quanto piuttosto per raccogliere dati della sua più ampia esperienza del giocare così da profilarlo dal punto di vista comportamentale. “La tipica struttura narrativa choose-your-own-adventure che accomuna molti giochi, è ben più di un dispositivo narrativo: è, prima di tutto, uno strumento di misurazione e di acquisizione di informazioni” (Pascal, p. 469).
Nata come forma di hacking, la pratica del modding, cioè di modifica dei videogiochi da parte degli utenti, a partire dai primi anni Novanta viene sapientemente sfruttata dalle grandi aziende del settore che iniziano ad allegare ai giochi software editor con cui gli utenti possono operare su aspetti architettonici, estetici e narrativi dei videogame concedendo la proprietà intellettuale di quanto prodotto alle aziende. Il lavoro di aggiornamento, correzione e sviluppo svolto dai prosumer, produttori-consumatori, viene ricompensato con incentivi e gratificazioni soprattutto simbolici.
In linea con le riflessioni di Tiziana Terranova sul lavoro culturale nell’economia digitale si può affermare che tale esperienza di gioco, oltre che impoverire la nozione e della pratica ludica, tende a celare quanto il gamer sia spinto a trasformarsi in un vero e proprio consumatore-produttore.
A meccanismi di ludicizzazione si ricorre sempre più frequentemente anche in ambito lavorativo (Manson) al fine di promuovere fidelizzazione, partecipazione emotiva, impegno e investimento psicologico di chi si trova a svolgere lavori poco stimolanti e per indirizzare eventuali contrasti che potrebbero sorgere con la direzione verso i colleghi percepiti come concorrenti nel gioco (Burawoy). Tutto ciò, oltre a creare una gerarchia reputazionale tra chi svolge le medesime mansioni, indirizza gli sforzi compiuti dai lavoratori alla ricerca di gratificazione nella competizione verso gli interessi aziendali.
Pur rigettando la possibilità di una relazione causale tra l’attività videoludica e i comportamenti sociopatici nel mondo fuori dallo schermo, diversi studi mostrano come in numerosi casi di sparatorie indiscriminate sulla folla, soprattutto negli Stati Uniti, gli attentatori che hanno aperto il fuoco siano accomunati – oltre che dalla giovane età, dall’essere maschi e bianchi, dall’aver acquistato legalmente fucili semiautomatici e dalla propensione a ostentare l’arsenale posseduto sui social media per fini identitari – dalla “appropriazione di estetiche e logiche tipiche degli sparatutto in soggettiva durante l’attacco, spesso ripreso in streaming [e dalla] diffusione di manifesti programmatici sulle medesime piattaforme condivise dai gamer” (Bittanti, 2022, p. 28).
Analizzando il massacro del 2019 di Christchurch in Nuova Zelanda, che ha causato una cinquantina di vittime, Suraj Lakhani e Susann Wiedlitzka hanno notato come l’attentatore, appassionato di giochi di ruolo multiplayer online di tipo sparatutto in soggettiva e frequentatore di imageboard infestati dall’estrema destra, abbia architettato l’attentato su una logica e un’estetica di tipo videoludico ricorrendo alla trasmissione in live-streaming dell’attacco nel formato di uno sparatutto in prima persona concretizzando uno stile di videogioco derivato da game di successo, nonché abbia trovato gratificazione nel confrontare la sua performance, in termini di vittime, con precedenti attacchi di estrema destra. Gamification e linguaggio ludicizzato non solo sono stati alla base del piano dell’attentatore ma sono riscontrabili anche nei commenti pubblicati da altri utenti degli imageboard su cui il giovane aveva annunciato l’intenzione di compiere una strage. Sulla strage è reperibile in rete un interessante intervento a firma di Pierre Haski, France Inter.
Alfie Bown evidenzia come l’intera storia dei videogiochi abbia privilegiato tematiche quali l’espulsione degli alieni, il timore del contagio impuro, la difesa dei confini, la conquista colonialista e la costruzione di imperi. Inoltre, secondo lo studioso, i videogame incitano il giocatore ad agire istintivamente aderendo acriticamente alle ideologie da essi veicolate. Se è pur vero che anche un film indirizza lo spettatore a immedesimarsi con qualche personaggio, in ambito videoludico il gamer che materialmente impugna il controller tende più facilmente a percepire i desideri del videogioco come propri, anziché vederli come desideri altrui.
Non a caso i rapporti tra universo videoludico e settore militare sono particolarmente stretti (Toni). Basti pensare alla sempre più diffusa gestione di strumenti militari attraverso schermi e controller di derivazione videoludica. Si vedano a proposito le tesi di Baravalle, Noah Smith e Leore Dayan, Travis M. Andrews, Eric Bland. I giochi ludicizzati, inoltre, si sono rivelati utili allo sviluppo di un’intelligenza artificiale capace di monitorare i soldati sul campo di battaglia. L’agenzia governativa del Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti (Dapra), incaricata dello sviluppo di nuove tecnologie per uso militare, ha investito ingenti somme nella sperimentazione di agenti artificiali operanti a fianco dei giocatori umani in ambito videoludico al fine di raccogliere dati utili al monitoraggio dei militari in battaglia da parte dell’intelligenza artificiale, come è dimostrato nel saggio di Ulysses Pascal (pp. 461-476).
Le molteplici possibilità di ibridazione tra l’universo videoludico e quello militare comportano un sempre più spiccato disincarnarsi e disumanizzarsi dei conflitti condotti da comfort zone che preservano dai rischi di un confronto diretto con il nemico, sempre più percepito come un’incorporea immagine sullo schermo su cui si può agire senza eccessive remore morali (Guerri, pp. 365-390).
Il fenomeno della ludicizzazione del gioco impone anche una revisione del dibattito sorto attorno alla cultura partecipativa che ha visto autori come Henry Jenkins (pp. 691-698) parlare della possibilità allargata di produzione mediatica, o di incidenza sui contenuti prodotti da altri, come di una trasformazione sociale fondata sulla partecipazione dal basso persino emancipativa, e altri studiosi, come John Banks e Sal Humphreys, denunciare come il fenomeno partecipativo rappresenti una modalità di espropriazione di lavoro non retribuito sapientemente sfruttata dalle aziende del settore.
Alla luce dei meccanismi di controllo e di indirizzo comportamentale, valoriale ed emozionale dispiegati dalla macchina del business digitale contemporanea, l’impressione è, come sostiene Matteo Bittanti, che siano i giocatori ad essere giocati dai videogiochi: “Come i social media – enormi spugne che assorbono incessantemente i dati di milioni di utenti – i videogiochi sono laboratori per condurre esperimenti psicosociali: oggi sono i videogiochi a giocare i giocatori” (p. 56).
bibliografia
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