In Un giorno vuoto e nessuna memoria Wallace Stevens scrive: “Oggi l’aria è vuota di ogni cosa. / […] Quest’attività invisibile, questo senso”. È la migliore esemplificazione degli oltre cento testi – scritti tra il 2007 e il 2011, con una prosa del 2018 – che compongono Poesie d’aria di Gabriella Sica, un fedele diario dei sommovimenti più riposti di un’anima, in cui la poesia (vera protagonista dell’opera) è “immacolata d’aria / imbandita tra le nuvole in cielo / dove danzano le ninfe del vento”. La silloge, aperta dal brano incipitario A pochi metri e poche ore e chiusa – come si è detto – da un autocommento in forma narrativa, Un gesto d’aria, consta di dieci sezioni variamente rimpolpate che dànno conto di tutti i temi cari alla lirica di Sica: il mito e la tensione musicale (Tre arie, Tre sonatine), l’eterno svolgersi delle stagioni (Corona interrotta dei mesi), l’atmosfera laziale da Prato pagano (rivista fondata da Sica nella quale si sono affermati poeti come Beppe Salvia e Claudio Damiani), il riecheggiare incessante di presenze letterarie che hanno segnato il percorso dell’autrice (Gerard Manley Hopkins, Alda Merini, Eugenio Montale, Emily Dickinson, Paul Celan).
Per Sica la poesia coincide con qualcosa di flebile e dolce, un refolo che ha il potere di risvegliare, far rinascere le cose, conferire primigeneità e significato ai “triti fatti” di montaliana memoria. Ecco perché La Fenice è sicuramente un componimento centrale di Poesie d’aria, con l’emblematica anafora “Ascolto… Ascolto… Ascolto”, che assomma in sé la condizione senziente dell’io lirico: “Ascolto crepitare i rami che il sole abbraccia / ci sta giocando / dopo una notte di guazza /ascolto tra le tavole del teatro le fronde / dita che si sfiorano lievemente / accenni di scale e accordi / un mormorio / le muove il vento che ci cammina sopra / è un’aria musicale / un magnifico magnificat”. L’impulso essenziale è dato dalla dantesca “forma generale del paradiso”, “l’alta letizia” – chissà se francescana stricto sensu o assimilabile alla joie di Claudel –, che permea il mondo con la soffusa luce dell’amore, anche nella profonda sofferenza di una prematura scomparsa: “Una figlia l’ho tenuta nel grembo / tre mesi d’improvviso colò il sangue / tra le gambe, quanto sgomenta / su un tapis roulant lunghissimo / e straniero io esangue a camminare / lei ribelle non voleva assomigliare / a me e già non mi chiedeva più niente / solo andare troppo presto via da me”.
Impressioni di viaggio, bozzetti cittadini, quadri campagnoli, amicizie perdute, madrigali sfilacciati e sonetti sfrangiati, “scortecciati”: in Poesie d’aria il pretesto della scrittura nasce dalle più minute osservazioni del quotidiano, come se fosse il commento, screziato e puntuale, a quanto accade d’intorno. “Mi nasce una poesia al giorno / che mi toglie il respiro / certo non so da chi sono istruita / da qual sconosciuta musa / mi viene una febbre un furore / quello che non avrei mai pensato / che si dice capiti ai poeti / certo è un infinito stupore / quando scopro / che ne è nata un’altra / una dopo un’altra / che piano piano esistono poesie di umane parole / che affabili parlano con tutti / che hanno le mie fattezze piane / oneste come il pane / come me / non riescono a darsi un certo tono”. La letteratura è qui intesa come condizione, direbbe Carlo Bo, e non come mestiere. La letteratura come vita, dunque, come parte più vera della vita stessa, “ricordo di un’impronta” o “trasformazione / dei corpi e dell’aria e dei respiri”: essere poeti vuol dire lasciarsi invadere dal thaumazein, dalla meraviglia, sentirsi scossi da “una tenace sottile fisica vibrazione” che conduce luzianamente all’“esercizio continuo di spoliazione fino alla povertà, anzi alla nudità”. Tutto ciò ha a che fare con Dio, l’invisibile, il non immediatamente percepibile: e la poesia medesima diviene atto spirituale, etereo, concentrato: “fiato, respiro, aria”.