La colonizzazione del West. L’avanzata del telegrafo e della ferrovia. La nascita dell’entertainment americano di Barnum e Buffalo Bill. Le prime, grandi attrazioni museali. Il battesimo di fuoco, infine, di una giovane scienza – la Paleontologia – che nella seconda metà dell’Ottocento scopre nel continente nordamericano un parco di straordinari giacimenti fossili. È la parabola di una selvaggia corsa all’ultimo osso e al prossimo dinosauro ingaggiata da due facoltosi scienziati collezionisti attraverso Kansas, Colorado, New Mexico, Wyoming, Montana e South Dakota. È la bone war, la guerra nata dalla rivalità tra Edward Drinker Cope e Othniel Charles Marsh, la storia di due illustri padri della moderna Paleontologia, avversari fino alla morte, che ingaggeranno un duello all’ultimo sangue mettendo a soqquadro la neonata comunità scientifica statunitense. Un duello che non risparmierà colpi bassissimi, beffe atroci, spionaggio, nomi in codice, furti, sabotaggi, raggiri, pubblicazioni accademiche al limite della contumelia e pamphlet scandalistici al gusto di vetriolo. Entrambi facoltosi privilegiati, Cape e Marsh possono godere dell’appoggio economico familiare, una volta che i loro congiunti si saranno arresi alla loro bizzarra passione per i sassi e gli animali estinti da milioni di anni.
L’affresco che ne riceviamo è grandioso, e i protagonisti a modo loro all’altezza: da una parte l’aggressivo, frettoloso e irascibile Cope, dall’altra il freddo, meticoloso e vendicativo Marsh, l’irruenza dell’ambizione contro la perfidia del metodo, Philadelphia conto Yale. Nel nascente regno della storia naturale i due piombano come una mina e arrivano ben presto a dilaniarsi per contendersi lo scettro detenuto fino a quel momento dal compassato Joseph Leidy, il decano della disciplina (che alla fine abbandonerà il campo, scegliendo di cambiare specializzazione).
Dalle biografie e dei documenti dell’epoca, alla luce delle sue competenze di paleontologo e giornalista scientifico, Gabriele Ferrari ricava un elegante e minuzioso biopic dei destini incrociati, sullo sfondo di un momento storico che si consolida anche attraverso una duplice mitopoiesi. Da un lato troviamo infatti i materiali e la nascente narrazione della frontiera americana, giunta in quegli anni ai suoi estremi limiti territoriali, che comincia a prendere forma attraverso i resoconti giornalistici e le interpretazioni sensazionalistiche dell’epoca, a mano a mano che la legge si sostituisce alle pistole e i territori dell’Ovest entrano a far parte del complesso federale. Nel libro spuntano così, tra diligenze e serpenti a sonagli, anche i nomi del Generale Custer, di Toro Seduto e di Nuvola Rossa, di cui Marsh difende le ragioni davanti al Presidente Grant, diventando buon amico del capo Sioux e, a sua volta, parte sia pur minima della leggenda. Dall’altro la scoperta e l’esplorazione di un misterioso “mondo perduto”, nascosto tra i sedimenti di un tempo che si scopre alieno, incommensurabile, geologico. È la nuova frontiera che la civilizzazione rivendica ora come sua missione – scientifica, commerciale, colonizzatrice – nell’universo post-darwiniano a cui la Paleontologia fornirà nuove, decisive munizioni, sempre in conto al famoso e immaginario “fardello” dell’uomo bianco.
A partire dai primi anni ’70 del XIX secolo un esercito entusiasta di paleontologi, scavatori, cercatori, avventurieri, per cercare fortuna o irregimentati nelle numerose spedizioni scientifiche governative, trasformerà le regioni a Ovest del Mississippi in una groviera. Dal fondo dei canyon emergono, assieme a tonnellate di fossili che saranno catalogate solo nei decenni successivi, tracce mineralizzate destinate a modificare la nostra visione del mondo. Non solo le ossa dei più grandi dinosauri mai conosciuti, erbivori ciclopici classificati con i nomi di Camarasaurus, Apatosauro, Amphicoelias, ma ben presto anche le testimonianze della cosiddetta “esplosione dei mammiferi” che 66 milioni di anni fa, dopo l’estinzione di massa del Cretaceo e del Terziario, diede il via libera ai nostri antenati. Una fauna di bizzarri mammiferi, ippopotami tricornuti che porta alla luce persino gli antenati estinti di una nativa razza equina (che, in insolita assonanza con le Sacre Scritture, pare coincida anche con certe affermazioni contenute nel Libro di Mormon, per il compiacimento dei suoi seguaci).
La scoperta di ogni nuova specie dà luogo immancabilmente a una feroce contesa. Nella appassionata, delirante vicenda di Cape e Marsh vanità e animal instinct risultano spesso quasi indistinguibili dalle motivazioni prettamente scientifiche, ogni movente – più o meno nobile, più o meno meschino – sembra ricomporsi piuttosto sotto il più ampio ombrello del Progresso e dello Spirito del tempo. Le spedizioni dei paleontologi, scortate delle giubbe blu e celebrate dalla stampa dell’epoca, seguono dopotutto, i binari della ferrovia, comunicano grazie al telegrafo e preparano il terreno per lo spettacolo dei mostri che sarà poi del cinematografo. Come osserva Ferrari. “Marsh e Cope avevano capito che, se devi avvicinare il pubblico alla scienza, un dinosauro o una tigre dai denti a sciabola fa più effetto di un insetto o un’alga, e che il passato del nostro pianeta non ha nulla da invidiare alle migliori storie di fantascienza. Più di un secolo dopo, lasciatevelo dire da uno che ha deciso di laurearsi in paleontologia dopo aver visto Jurassic Park: avevano ragione”.