Quando Al di là del futuro (A Future Glitter, 1973), venne dato alle stampe, Alfred Elton Van Vogt (1912-2000) alle spalle aveva straordinari romanzi di fantascienza (basti pensare a Slan, La guerra contro i Rull, il celeberrimo “Ciclo del Non-A”), ma l’ ispirazione cominciava a latitare, e infatti il tradizionale meccanismo narrativo dell’autore, un flusso di invenzioni autogenerante che trascina il romanzo stesso, mostra segni di inceppamento.
Siamo in un mondo futuro in cui il regime politico è una sorta di collettivismo stalinista, retto da un Presidium in cui il capo assoluto è il dittatore Lilgin. In realtà, fatti salvi sessismo, condanne, carceri, esecuzioni di massa, il regime non è così brutto come sembra, anzi, riesce a far funzionare quello che spesso nei regimi “democratici” non funziona; e l’assurdità della burocrazia ha sempre una sua (perversa) logica, che già in fase di incipit si manifesta, quando al professor Higenroth viene consegnato l’ordine di decapitazione; per i grandi scienziati infatti il coronamento della carriera è la ghigliottina, sistema che permette alle informazioni accumulate dal morituro di esser disperse nell’aria e raccolte dai suoi allievi.
Il resto del romanzo, dopo un’ellisse di diversi anni, ruota attorno alla figura di Orlo Thomas, figlio di Hingeroth e della giovane (e imposta) moglie, che scambiato e dato in adozione, si ritrova nello spazio di poco tempo nella Città delle Comunicazioni, a fianco dei grandi scienziati e al cospetto dello stesso Lilgin, a operare nel campo della comunicazione. Come tutti i personaggi vanvogtiani Orlo è al centro di un complesso piano in cui nulla è come appare realmente, in cui si intersecano scienze e poteri paranormali, sosia e assassini, ribelli veri e falsi, uomini e superuomini; il centro del complotto è la teoria di Higenroth, ovvero il Sistema Pervasivo che trasmettendo ovunque le immagini prescelte, e senza l’utilizzo dei media, farebbe sì che Lilgin e il Presidium fossero sotto lo sguardo di tutto il mondo.
Al di là del futuro quindi riassume i topoi classici della scrittura dell’autore, e tutti i suoi interessi costanti; in questo caso la comunicazione, che diventa un incrocio fra le teorie di McLuhan e della scuola di Palo Alto, cui spesso Van Vogt ammicca con una costante meta-comunicazione nei confronti del lettore. Romanzo non minore quindi, ma poco rifinito nello schema generale e nei tempi, da leggersi comunque per i problemi problemi politici e psicologici sollevati, e un eccezionale e shakespeariano explicit.
2 Settembre 2017