Negli anni ’30, sulla chitarra di Woody Guthrie, cantastorie e bardo legato agli Wobblies dell’IWW, Industrial Workers of the World, e al sindacalismo rivoluzionario statunitense, nonché futuro maestro del primo Bob Dylan, campeggiava una scritta ben in evidenza: “This machine kills fascists”, questa macchina ammazza i fascisti. Lo strumento musicale veniva dichiarato arma capace, di indurre attraverso il canto – fatto di idee e di parole – la disarticolazione delle strategie oppressive del fascismo, il disinnesco del potenziale mitico e simbolico – fatto di riti e slogan, di idee senza parole che (la definizione è ripresa da Splengler) – ne costituivano l’architrave concettuale di credenze, opinioni, rappresentazioni e valori. La metafora della chitarra non è troppo lontana dal modello concettuale che, se ben compreso, diventa un’altra diversa macchina ammazza-fascisti, quella macchina mitologica che Furio Jesi ha focalizzato e di cui ha saputo così precisamente tracciare i meccanismi. Sarà probabilmente proprio la precisione chirurgica, l’individuazione esatta e sostanziata con cui vengono raccolti ed elaborati i dati del problema, il motivo del rancore e dell’odio inveterato che i fascisti gli serbano a tutt’oggi, a quarant’anni dalla sua scomparsa. Due sono infatti i libri ancora maggiormente aborriti e vituperati dall’estrema destra italiana: Il fascismo eterno di Umberto Eco (La Nave di Teseo, 2020) e Cultura di destra di Furio Jesi (Nottetempo, 2011), pericolosi proprio in quanto efficienti macchine ammazza-fascisti, capaci attraverso il ragionamento e le parole di svelare l’inganno e il bluff delle spengleriane idee senza parole.
Nel caso di Jesi l’avversione e l’aggressione da parte di certi chierici neofascisti con pretese culturali è divenuta vera e propria cinica irrisione, toccando vertici ineguagliati di cattivo gusto, tanto da ricordarlo su una loro pubblicazione uscita poco dopo la tragica e prematura scomparsa dello studioso, come “un intellettuale ebreo morto per una fuga di gas”. Tanto astio si spiega solo con un dato di fatto: Jesi, che con i vampiri aveva dimestichezza (L’ultima notte, Aragno 2015), era un Van Helsing capace di ben affilare il paletto di frassino e piantarlo dritto nel cuore, senza farsi tremare la mano. Meglio bruciarli allora certi libri, Goebbels docet, e possibilmente anche i loro autori.
Per fortuna invece – con buona pace dei chierici neofascisti – i libri di Jesi vengono costantemente ristampati e, si spera, anche letti, la macchina ammazza-fascisti funziona ancora e il paletto di frassino non si è affatto spuntato. Quodlibet ad esempio, che già da qualche anno sta recuperando molti testi di Jesi, ripubblica il volume che forse in modo più compiuto e articolato definisce le premesse teoriche del funzionamento della macchina mitologica utili a disvelare ogni interessata “tecnicizzazione” dei materiali mitici; un libro commissionatogli da Mario Antonelli nel 1973, per la collana “Enciclopedia filosofica” della ISEDI di Milano: Mito (ISEDI, Milano 1973; Arnoldo Mondadori Editore, Oscar Studio, 1980 e 1989; Quodlibet, 2023).
In questo testo, oltre al percorso storico, filologico e filosofico, lungo il quale mito – puro simbolo riposante in sé stesso, ipotetico e inattingibile per l’uomo moderno – e mitologia – oggetto empirico di rappresentazione nata dalla mescolanza fra ugualmente ipotetici contrari, mythos e lògos – attraversano la cultura occidentale dalle origini greche, al neopaganesimo rinascimentale, Illuminismo Romanticismo e Storicismo, fino all’etnologia e allo strutturalismo di Lévi-Strauss e di Propp, Jesi delinea i meccanismi della macchina mitologica, cioè “la qualità ideologica della scelta di affermare o di negare la sostanza del mito”. Prendendo spunto dalla biforcazione introdotta dal suo maestro Károly Kerényi tra mito “genuino” e mito “tecnicizzato” – epifanie spontanee e disinteressate quelle del primo, “scaturenti dalla psiche senza che in alcun modo siano state sollecitate dalla volontà”, e pseudo-epifanie, “provocate deliberatamente in vista di determinati interessi”, quelle del secondo – Jesi vede nella scelta del sì (Sorel, Heidegger) o del no (Lukàcs) circa l’esistenza della sostanza-mito entro la macchina mitologica come qualcosa di più dell’“antagonismo fra neo-kantiani e neo-hegeliani intorno alla razionalità dell’essere e del reale”. Infatti, la macchina mitologica “non appena cessa di essere considerata un puro modello funzionale e provvisorio, tende a divenire un centro fascinatorio e ad esigere prese di posizione, petizioni di principio, circa il suo presunto contenuto”. Tanta maggiore importanza si conferisce al “contenuto” del mito, tanto più si viene distolti dalle modalità di funzionamento dei meccanismi della macchina; ma sono proprio le modalità del funzionamento del fenomeno mitologico più che il problema dell’essere o del non-essere del suo nucleo enigmatico che ci tutelano dalle tecnicizzazioni, manipolazioni, strumentalizzazioni o apologie del mito. “Di là dai tentativi di apologia metafisica del mito o, per converso, di demitologizzazione o comunque di negazione dell’essenza-sostanza del mito, la necessità più urgente ci sembra essere quella di indagare il funzionamento dei meccanismi della macchina mitologica anche se ciò impone di collocare per ora fra parentesi il problema relativo all’essere o al non essere del mito in sé e per sé”.
I pericoli delle strumentalizzazioni del mito da parte della destra già individuate nel capitolo sulla Bachofen-Renaissance di Klages, Dacqué e Baumler in funzione pro-nazista e nell’opera del fenomenologo delle religioni Mircea Eliade, ex membro del movimento fascista rumeno della Guardia di ferro di Codreanu, verranno denunciati e approfonditi in Cultura di destra. Qui Jesi vede nel patrimonio ideologico dell’aristocrazia reazionaria di fine Ottocento, un “immobilismo veramente cadaverico che si finge forza viva e perenne”, il nucleo di idee-forza elaborate dalle élite liberali la cui egemonia è minacciata dalla società di massa farsi programma nazionalista della piccola borghesia e fondamento dei movimenti autoritari e dei fascismi novecenteschi. Una “cultura entro la quale il passato è una sorta di pappa omogeneizzata che si può modellare e mantenere in forma nel modo più utile. La cultura in cui prevale una religione della morte o anche una religione dei morti esemplari […]”. Ma questa distorsione non pertiene solo alla destra: “il linguaggio delle idee senza parole è una dominante di quanto oggi si stampa e si dice, e le sue accezioni stampate e parlate, in cui ricorrono appunto parole spiritualizzate tanto da poter essere veicolo di idee che esigono non-parole, si ritrovano anche nella cultura di chi non vuole essere di destra, dunque di chi dovrebbe ricorrere a parole così “materiali” da poter essere veicolo di idee che esigono parole». In altri termini: «la maggior parte del patrimonio culturale […] è residuo culturale di destra”.
Ogni linguaggio mitologico, sloganistico, dogmatico e populista, fatto di semplificazione e irrazionalità, è macchina mitologica che produce idee senza parole, astrazioni adialettiche, concetti vuoti che una volta smascherati perdono il loro potenziale seduttivo: gli elementi comprensivi e qualificanti oltre che del fascismo eterno di Eco, anche di fenomeni contemporanei come suprematismo, berlusconismo e leghismo. Ecco perché la destra odia Jesi, ecco perché bisogna leggerlo.