Tornano in libreria, a trent’anni dall’affascinante traduzione di Gianni Celati per Feltrinelli, le Poesie della torre di Friedrich Hölderlin. A incaricarsi della nuova, e altrettanto gustosa versione, è Vincenzo Ostuni, curatore della collana di poesia dell’editore Ponte alle Grazie, attiva da alcuni anni e con molte pregevoli uscite in un formato, per di più, tascabile e apprezzabilmente economico.
Questa particolare scelta traduttiva di Ostuni – già autore di una notevole traduzione da Emily Dickinson, nel 2019 – mostra più di un punto di contatto con l’operazione celatiana, puntualmente ricordata dal traduttore nella concisa, ma assai efficace, postfazione: come Celati, anche Ostuni è principalmente traduttore dall’inglese, il che configura l’avventura traduttiva dal tedesco come una deviazione eterodossa, ma al tempo stesso assai significativa, dall’ambito più strettamente “professionale”; un significato, poi, che per entrambi ha un chiaro peso specifico in rapporto alla propria produzione autoriale (per Celati, in prosa; per Ostuni, in poesia).
Sembra, infatti, che entrambi siano stati mossi in profondità dal lascito poetico di Hölderlin, in particolare da quella fase terminale della “follia” in cui Hölderlin assunse varie identità (la più famosa delle quali resta quella di Scardanelli) e sconvolse le cronologie (retrodatando al secolo precedente i propri testi) e si rese, in una sola espressione, autore di una “beffa sublime” (tanto nei confronti di sé stesso, quanto della poesia fino ad allora codificata).
In questo senso, l’ascrizione delle Poesie della torre al patrimonio più elevato della cultura occidentale, sempre nella postfazione di Ostuni, ribadisce sicuramente quello che è ormai un dato di fatto, nel cosiddetto “canone della letteratura occidentale”, ponendosi in linea anche con quanto recentemente avanzato anche da Giorgio Agamben, nel saggio La follia di Hölderlin. Cronaca di una vita abitante 1806-1843 (Einaudi, 2021). Resta, tuttavia, una canonizzazione bizzarra, e imbizzarrita, perché intimamente eversiva.
Basti ricordare quanto scriveva già Roman Jakobson nel saggio Hölderlin e l’arte della parola, apparso in traduzione italiana già nel 1979, per i tipi del Melangolo, ricordando come Hölderlin/Scardanelli amasse ripetere il neologismo pallaksch, a volte per dire “sì”, a volte per dire “no”, senza possibili linee di demarcazione: “Non esiste ragionevolezza né opposizione nel mondo autentico, dove le ‘parole senza senso’ sono la sola poesia possibile. Pallaksch è una specie di amuleto, una parola magica, il passepartout per tutte le visioni, da sbandierare di fronte a chi pensa per superfici piane e progressive, per convenzioni. A te, che ragioni in trapezi e rettangoli, la risposta: io resto sconfinato, opto per tutte le direzioni, dice il poeta”.
Beffardo, eversivo, modernissimo: non ci potrebbe essere scelta più azzeccata per confermare e al tempo stesso demolire dall’interno il cosiddetto “canone”. Con Hölderlin/Scardanelli non si può più ragionare “in trapezi e rettangoli”, ed è quanto hanno fatto anche Celati e Ostuni nelle loro opere: se c’è, infatti, qualcosa che si muove in modo apparentemente geometrico e in realtà con la mobilità del magma, questo è il faldone di Ostuni – progetto poetico la cui storia si può ripercorrere in rete e ritrovare poi in parti autonome presso diversi editori.
Allo stesso tempo, però, Scardanelli sembra giocare un’ultima beffa proprio ai danni del suo traduttore – una beffa che rimane sempre, ovviamente, sublime. In altre parole, e per quanto la traduzione di Ostuni sia sempre impeccabile dal punto di vista linguistico, si possono notare almeno due fenomeni bizzarri, o anche imbizzarriti, quali, da un lato, la saltuaria, se non anche rapsodica, adesione allo schema rimico originale e, dall’altro, l’emersione di una torsione sintattica particolare, peculiare dello stile traduttivo, con la ricorsiva abolizione dell’articolo davanti ai sostantivi singolari. Una musicalità residuale, essa stessa trasgressiva, che torna così a infiltrarsi nella poesia – considerando nell’alveo di questo termine, dai confini ormai labilissimi e dal futuro incerto, anche la traduzione di poesia – di un autore contemporaneo come Ostuni? Pallaksch, pallaksch.