Fredric Jameson, la science fiction, l’utopia

A partire dagli anni Settanta la science fiction occupa un posto importante nella riflessione di Fredric Jameson che si domanda  se la stretta parentela della FS occidentale con visioni distopiche abbia contribuito alla sua classificazione come genere di serie B, mentre la sua analoga sovietica, più interessata all’utopia, è considerata letteratura “alta”. Jameson si risponde che se la seconda viene considerata dai critici come un prodotto dell’ideologia, non è che la prima sia da meno, osservata da una prospettiva oggettiva.

Sebbene non sia centrale nella riflessione teorico-filosofica di Fredric Jameson (1934-2024), a partire dagli anni Settanta la science fiction occupa un posto importante nella sua opera. La sua opinione è che non abbia senso tentare di “nobilitare” la fantascienza evidenziandone i capolavori ad alto valore letterario, come accaduto per altri generi (per esempio, inserendo Dashiel Hammett o Raymond Chandler in una tradizione che risale a Dostoevskij): “La SF è un sottogenere con una propria, interessante storia formale, con dinamiche proprie, che non sono quelle della cultura “alta”, ma che si trovano in relazione dialettica e complementare con quella cultura e con il modernismo.” Funzione della fantascievnza è quindi quella di preparare i lettori ai vorticosi cambiamenti tecnologici in atto, per attutire lo shock del futuro di cui parlava Alvin Toffler.

Jameson prende ad esempio Philip K. Dick, “lo Shakespeare della science fiction”, per affermare che la fantascienza “esprime realtà e dimensioni che sfuggono alla letteratura alta”; è percepita come un tentativo di immaginare futuri inimmaginabili, ma nel suo profondo parla del nostro presente.

In Archeologies of the future Jameson propone una classificazione della sua evoluzione attraverso sei successivi stadi, naturalmente con sovrapposizioni e senza rigore nelle datazioni, e con l’importante precisazione che ogni nuovo stadio mantenne le conquiste formali dei precedenti (non sarei sicuro che le abbia mantenute anche lo stadio attuale, a partire da inizio secolo, che chiamerei “distopizzazione”, il quale per molti versi rappresenta una regressione).

Le fasi indicate da Jameson sono:

  1. Avventura o “space opera”, a partire da Jules Verne e nel solco della tradizione americana (John Carter di Martedi Edgar Rice Burroughs), 1917
  2. Scienza, o almeno la sua mimesi, a partire dai primi pulp (Amazing Stories di Hugo Gernsback), 1926
  3. Sociologia, o “critica sociale”, più o meno dopo Mercanti dello spazio di Pohl e Kornbluth, 1953.
  4. Soggettività, la sf degli anni Sessanta (Jameson cita i dieci maggiori romanzi di Philip K. Dick, scritti dal 1961 al 1968).
  5. Estetica, o speculativa, collegata alla rivista “New Worlds” (1964-1977) di Michael Moorcock, (che dette avvio alla new wave britannica) e negli USA a Samuel Delany.
  6. Cyberpunk, inaugurato da Neuromante (1984) di William Gibson, che rappresenta una rottura non soltanto con la rivoluzione neoconservatrice e con la globalizzazione, ma anche con l’avvento il fantasy, genere commerciale che in seguito sarebbe divenuto dominante nel campo della cultura di massa.

In As far as thought can reach Fredric Jameson analizza alcuni autori e alcune opere in una serie di interventi illuminanti: Brian Aldiss, Vonda McInyre, A.E. Van Vogt e Kim Stanley Robinson (Jameson fu relatore alla tesi di laurea di Robinson, che aveva come argomento i romanzi di P.K. Dick);  molto lucidi sono quelli dedicati a Dick appunto e alle due più conosciute opere di Ursula LeGuin.

A proposito di The left hand of darkness, Jameson nota che la società getheniana (che sono biologicamente bisessuali) non vede l’eliminazione della questione sessuale, ma della repressione sessuale. La stato getheniano di Karhide non è lo stadio medievale di una civiltà extraterrestre, ma rappresenta uno sforzo dell’autrice per immaginare come apparirebbe la società occidentale se non avesse mai conosciuto lo sviluppo capitalista: infatti LeGuin mette tecnologia molto avanzata nelle mani dei suoi personaggi, apparentemente invischiati in pratiche medioevali. Il sottotesto del romanzo è una identificazione tra  quella gratuita complicazione dell’esistenza rappresentata dal sesso, e il capitalismo come momento senza significato dell’evoluzione.

In The dispossessed, il cui sottotitolo è un’ambigua utopia, Jameson sottolinea un’ulteriore ambiguità: la società anarresiana non rifiuta la violenza (si veda l’episodio dell’aggressione al giovane Shevek), ma solo la sua istituzionalizzazione da parte dello Stato. “l’Utopia non è un luogo in cui l’umanità è libera dalla violenza, ma piuttosto uno in cui è svincolata dai molteplici determinismi (economico, politico, sociale) della Storia”.

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Fredric Jameson aderiva esplicitamente alla definizione di Darko Suvin, per la quale l’utopia è “il sottogenere socio-economico della fantascienza”[1]; per questa ragione individua un certo parallelismo nello sviluppo delle due narrazioni nel corso del Novecento. L’utopia sembra essere un sottoprodotto della modernità occidentale; durante la Guerra fredda, la parola è sinonimo di sistema “perfetto”, di un ideale da imporre con la forza a popolazioni riluttanti: il modello è lo stalinismo che tiene sotto il tallone di ferro l’Europa orientale. Tuttavia, il terzo stadio del capitalismo rende obsolete le questioni marxiane della produzione e dell’industrializzazione, e l’accantonamento della questione comunista lascia spazio al risorgere di utopie non socialiste, anarchiche (Jameson cita Robert Nozick[2]) o post-individualiste (il cyberpunk, che per Jameson sviluppa modalità collettive inedite, e per questo non riconoscibili a prima vista).

La questione è se la cultura possa avere una funzione politica, critica, sovversiva, o se finisca inevitabilmente assorbita dal sistema sociale del quale fa parte. E in subordine: esiste una utopia a grado zero, che sia cioè valida per tutti i tempi, per ogni civiltà, per qualsiasi società?

Jameson ammette la difficoltà di immaginare un’utopia estranea “ai valori dell’uguaglianza sociale ed economica, del diritto universale al cibo, all’alloggio, ai farmaci, all’educazione e al lavoro”, in una parola, svincolata dalla nozione di socialismo, “nel suo più ampio valore anticapitalista”. Al tempo stesso, rileva che questo ritorno di fiamma delle utopie pre-socialiste richiama l’attenzione su una delle sue origini, che Jameson individua nella forma”plebea” della fiaba scaturita dal mondo contadino, che reca in sé il ricordo della terra, del villaggio, “la traccia semidimenticata della solidarietà e della collettività contadine”.

Esistono infatti differenze non secondarie tra utopie rurali e urbane, che l’autore rappresenta con il quadrato semiotico di Greimas:

Note del quadrato di Greimas

1. (è un’invenzione letteraria di William Gibson, che usò questo vocabolo (il cui significato è “crescita disordinata”) nella trilogia di romanzi che iniziarono il movimento cyberpunk.)
2. Dal vocabolario Treccani: “Fondazionalismo”– In filosofia, ogni orientamento volto a realizzare un progetto di fondazione. L’uso del termine si è diffuso soprattutto in connessione con gli sviluppi antimetafisici o relativistici di varie correnti della filosofia contemporanea, che mettono radicalmente in discussione la legittimità di tale progetto (e che si autoqualificano, quindi, come antifondazionaliste).
3. Dall’enciclopedia Treccani: l’anti-essenzialismo è ogni dottrina o corrente filosofica per la quale la conoscenza consiste nella ricerca di essenze intese come realtà ultime.
4. Jameson in The desire called Utopia spiega così il concetto di “tematizzazione”, che qui utilizza nel senso datogli dal filosofo decostruzionista belga Pal de Man: Thematization means assigning a stable figuration or symbolic expression to a system in motion; it suggests a dogmatism of the signifier for which meanings are fixed and stable, and are assigned definitive content; “Tematizzazione significa assegnare una figurazione stabile o un’espressione simbolica a un sistema in movimento; suggerisce un dogmatismo del significante per il quale i significati sono fissi e stabili, e hanno un contenuto definitivo.”


Naturalmente, Jameson non dimentica di occuparsi dell’utopia negativa, o anti-utopia, che sempre riemerge in periodi di stagnazione politica; oggi questa è rappresentata dal genere letterario neodistopico, che ne interpreta il concetto in senso molto estensivo. Per Jameson, il risveglio (neo)distopico non è una ribellione contro la tirannia, ma “una reazione [collettiva della borghesia] alla possibilità di uno Stato dei lavoratori,” e provoca un terrore che “scavalca chiaramente l’altro impulso collettivo, quello utopic

Tale terrore anti-utopico del potere statale e della dittatura è radicato, e si accompagna per Jameson con l’odio per l’arte moderna, gli artisti visionari e gli intellettuali in genere.

Per un populismo anti-intellettuale e consapevole della posizione di classe è chiaro che l’Utopia come opera d’arte è un’invenzione degli intellettuali per usare le masse come materiale grezzo, e i suoi nobili ideali politici e sociali maschererebbero soltanto il disprezzo per le persone comuni e per le loro vite, che devono essere trasfigurate dal progetto utopico. (Jameson, Il desiderio chiamato utopia, Feltrinelli, cap. 12.i)

Jameson si domanda, tra l’altro, se la stretta parentela della FS occidentale con visioni distopiche abbia contribuito alla sua classificazione come genere di serie B, mentre la sua analoga sovietica, più interessata all’utopia, è considerata letteratura “alta”; e si risponde che se la seconda viene considerata dai critici come un prodotto dell’ideologia, non è che la prima sia da meno, osservata da una prospettiva oggettiva.

Una delle cause concomitanti del perché oggi non si scrivono più utopie sta nel fatto che la competizione liberista e l’ansia della sopravvivenza sotto il capitalismo sono arrivate a un’identificazione così stretta con il conflitto, che l’idea di una loro assenza provoca “una quiete troppo improvvisa e brusca” per potere essere apprezzata dal lettore, il quale non afferra la nozione di “conflitto narrativo”, che è questione puramente estetica — o narratologica.

Che fare, dunque? Come immaginare il futuro dell’utopia nella pratica, non solo nella letteratura?

Jameson prova a partire dall’utopia anarchica di Robert Nozick, perché non vede contrapposizione tra comunismo e anarchismo (entrambi sono sotto il grande ombrello socialista). Non ci sarà nel futuro un solo tipo di comunità, un sola Utopia, ma tante utopie quante saranno le “comunità diverse e divergenti in cui le persone condurranno diversi tipi di vita sotto diverse istituzioni.” Ci sarà mobilità da una comunità all’altra, per chi vuole cambiare.

L’Utopia come una cornice per diverse visioni di vita ideale, che nessuno potrà imporre agli altri: una meta-utopia dunque; ma Jameson precisa la propria visione nel concetto di “arcipelago utopico”, che differisce forse in maniera sostanziale da quello di Nozick:

Propongo di immaginare le nostre Utopie come altrettante isole autonome e non comunicanti, che possono variare dalle tribù nomadi e dai villaggi stanziali fino alle grandi città-stato o alle ecologie regionali: un arcipelago utopico di isole nella rete, una costellazione di centri discontinui, a loro volta decentrati al proprio interno. […] È questa allora la verità profonda del “locale”: non città che tentano di ravvivare la loro esistenza languente grazie al turismo, alla gentrification, alla disneyficazione o alle Olimpiadi, non il sogno delle industrie hi-tech e il ripristino del patrimonio urbano grazie al potere magico dei microchip, e nemmeno la fantasia di sinistra della secessione, in cui un socialismo locale o un nazionalismo progressista si staccano con un gesto eroico dalla grande rete globale per andare da soli. In realtà è lo schema combinatorio strutturale la verità intrinseca dell’Utopia e forse persino della stessa democrazia: abbiamo qui il definitivo ripudio del soggetto centrato e il pieno dispiegamento della grande massima “la differenza mette in relazione”, una delle immagini più vivide del collettivo in tutti i suoi più intimi conflitti interni e patti o cospirazioni. (Jameson, Il desiderio chiamato utopia, Feltrinelli, cap. 13.iv)


BIBLIOGRAFIA DELLE OPERE CITATE

Fredric Jameson, Archaelogies of the future, Verso 2005
Fredric Jameson, Il desiderio chiamato utopia, Feltrinelli 2007
Fredric Jameson, As far as thought can reach, in Archeologies of the future, 2005


[1] Darko Suvin, Le metamorfosi della fantascienza, cap. III, Il Mulino, Bologna 1985

[2] Robert Nozick, Anarchia, stato e utopia (Anarchy, the State and Utopia, 1974) Il Saggiatore 2024