Il puma e l’idiota. Due soprannomi, due personaggi. L’incontro tra i due al bar di Coso. Un ladruncolo, il puma, in cerca d’una vittima da sorprendere; un gradasso gonfio d’alcool e di soldi, l’idiota, in cerca della via di casa dopo i bagordi. Il puma fiuta, segue e colpisce di soppiatto. Il colpo sembra bello e fatto. A meno che non sia la vittima a farsi predatore. A meno che non sia un colpo gobbo. Franz Bartelt ci trascina in un’improbabile avventura a tratti demenziale, che ricorda i crassi polizieschi di San-Antonio e di Pierre Siniac. Un huis clos di provincia in cui sfilano, non in ordine di apparizione, una prostituta callipigia e d’avvenenti gengive e un giardiniere gobbo e segreto, di meno avvenente sorriso, una fidanzata ninfomane e una mammina premurosa. Spettatore di questo teatrino è proprio il puma, scoperto in flagrante delitto dall’idiota e conseguentemente sequestrato, costretto a ripulire una cantina piena dei cadaveri di chi lo ha preceduto. La prigionia si trasforma in servitù volontaria, almodovarianamente, e una strana amicizia lega i due personaggi. L’idiota si presenta: Jacques Cageot-Dinguet, mentre il puma resta il puma. Di lui non sapremo mai il vero nome. Ma anche dell’idiota, quel nome, sarà poi vero? O, nomen omen (cage è “gabbia” e dingue è “matto”), non si tratterà forse di una maschera? E di maschere ne cadranno, infatti, alla fine.
Eppure “in quella storia dove tutto era falso, l’unico a essere vero ero io”, chiosa il puma alla fine dell’avventura, sciogliendosi dai lacci della trama. Certamente di verità ne ha da vendere, il puma, con quella sua prosa carnale e sentenziosa, resa in modo spumeggiante dal tandem Girimonti Greco/Sinigaglia. È un ladruncolo filosofo, sedicente artista e poeta. Per la sua gola rabelesiana sgorgano, in alternati sensi, alessandrini e birra. Un pot-pourri letterario in cui si mescolano citazioni dotte ad altre triviali, chicche d’eruditi e spudorate bubbole. L’amicizia tra vittima e carnefice si fonda proprio sul mutuo riconoscimento della ricerca della perfezione, del gusto per l’arte, ovvero per l’impostura. Quasi una meditazione sul rapporto che lega l’autore al suo personaggio, alla volontà di far vivere un personaggio nello spazio chiuso di un’opera letteraria. Il colpo gobbo, ed è in questo che Bartelt è geniale, sta proprio nell’adescare un personaggio sulle soglie del libro (e il lettore insieme al personaggio, per via della focalizzazione), per poi svignarsela, all’altro capo del libro, liberando d’un colpo personaggio e lettore. Una variazione pirandelliana in salsa noir, se si vuole.
E c’è anche – ma qui giova ricordare che il libro uscì in Francia nel 2004 (presidente era allora un altro Jacques) – un dissacrante sarcasmo contro il “politicamente corretto”. Il puma è “un tipo di sinistra” eppure “allergico al lavoro” e teledipendente. Capace di uccidere ma, in quanto “uomo di sinistra”, fautore del negoziato con chiunque. Ma nella sua incostanza, in tutti i suoi paradossi, nel suo essere così anti-eroe, il puma non riesce mai antipatico. Anzi, inaspettatamente, si ha da lui un guizzo di coerenza, un altro colpo gobbo, verso la fine del libro. Quando, all’apparir del vero, se ne esce con una confessione così tenera da pungere il cuore: “Se solo avessi saputo. Ma non voglio sapere. Voglio coltivare l’illusione. La felicità è lì, nella menzogna”.