Franco Marcoaldi, Tomaso Montanari / Poesia e arte pienamente visibili

Franco Marcoaldi, Tomaso Montanari, Il nostro volto. Cento ritratti italiani in immagini e versi, Einaudi, pp. 210, euro 18,00 stampa

Franco Marcoaldi, poeta (ma non solo) e Tomaso Montanari, storico dell’arte (ma non solo) affidano a un brano tratto dai taccuini di Camus l’introduzione a qualcosa che assomiglia grandemente al diario topografico e documentale dell’Italia non separata dalla vita. Vita che, fra violenze crescenti di stampo sociale e pandemico, riesce a perpetuare lo spirito poetico, in quanto produttore di poesia, e artistico in quanto padre di immagini ragguardevoli. Se in questi giorni dobbiamo combattere i razzismi culturali e le sgraziate e strafatte comunicazioni social-televisive (con i loro comandi viaggiano alla velocità della luce – e già lo scriveva Enrico Ghezzi nel preistorico 1996), niente di meglio che accompagnarsi alle “passeggiate” mentali dello scrittore francese che al termine della vita vorrebbe ritrovarsi sulle strade di San Sepolcro scorgendo all’orizzonte i “minareti” di Siena, immerso nell’odore di ulivi, cipressi e tufo. L’immaginario “meticcio” di Camus, fatto risorgere nella prima pagina del Nostro volto, subentra ricco e suadente antidoto contro la piattezza di certi individui che manipolano il potere automatico e condizionano in negativo la conoscenza.

Un libro dunque che insegue il volto degli italiani attraverso cento ritratti in immagini e versi, e li raggiunge e li racconta attraverso lingue differenziate dal passare dei secoli e attraverso le tecniche pittoriche e fotografiche altresì mutate nel corso del tempo. Perché, ricordiamolo, il luogo della poesia non è solo ispirazione ma geografia “storica” del paesaggio linguistico: ognuno può essere stupito come Marziale, baldanzoso come Boccaccio, voluttuoso come Govoni, sanguigno come Pavese, quartieristico come Raboni, sgominante come Valduga, industriale come Volponi, laudante come Alighieri, infiammata come Bachmann, perforante come Campana, accesa come Stampa, imperiosa come Tarozzi, ritmico come Caproni, sferragliante come Guccini, drastico come Leopardi.

Dagli antichi a oggi la poesia regge con varie ragioni dove l’arte solleva tutti noi dentro i muri dei quartieri e nei luoghi deputati e sfruttati: l’arte della ritrattistica espone i multigeneri provando come la varietà (al netto del pensiero di certi “ostili”) sia condizione inequivocabile della natura italiana. Multiformi il suolo, il clima, la diversità della vita accumulata in secoli e millenni. Dalla pittura e dalla scultura alla fotografia, in molti hanno fatto trasparire nel loro pensiero quanto il flusso vitale in perenne movimento ha ben poco a che fare con l’oggettività data e scontata ma se mai con un coacervo pressoché infinito di transizioni meravigliose. Ricordano Marcoaldi e Montanari come Picasso (artista composito per antonomasia) sostenesse che ogni individuo è “un’intera colonia”: niente di più vero guardandoci intorno, dando libertà all’anima e respingendo le bassure opportunistiche.

Sensazionali ritratti di Andrea Camilleri, “Maria a quindici anni”, Moana Pozzi, Alba Rohrwacher e Marina Rocco, Primo Levi, Ilaria Cucchi (da imprescindibili archivi e fotografi come Scianna, Pino, Cipelli, Lotti, Grillandini, Cartier-Bresson, Majoli, René Burri) ricordano, o meglio incarnano il romanzo di coetanei viventi o traslocati altrove, in un atto di diffusione estrema del soggetto: benessere visivo in presa diretta con una tradizione che sarà bene risistemare nell’attualità e nella memoria indebolita da un’epidemica virulenza di contro-civiltà giunta ben prima del Covid. E dunque abbiamo pagine risolute, talvolta perfino euforiche, dove accampano: l’angelo di Bernini, la Danzatrice di Pompei, la Danae di Artemisia Gentileschi, l’Annunciata di Antonello da Messina, L’amante dell’ingegnere di Carrà, la vergine della Pietà di Buonarroti. E come sofferenti creature in bilico su un precipizio ci spostiamo dal ritratto del Ghirlandaio, “Irraggiungibile ideale” che apre il volume all’immagine finale del migrante sfinito – “Resta!” – su una panchina di Ventimiglia. Così improvvisamente ci ritroviamo a piedi nudi, attoniti, su una terra che vorremmo risvegliare da quel sonno profondo che già Virgilio vedeva duemila anni fa, desiderando che qualche dio affiori dalle acque e ci inciti finalmente a sottrarre la realtà dal nemico.