Fra le tante fragilità dell’umano si è stabilito l’indebolimento del fantastico, a vantaggio di un’apologia del tecnologico come se i meccanismi di quest’ultimo si sostituissero all’anima del mondo. Non che prima o poi possa davvero accadere, benché gli animali ultimamente “imitati” da ogni sorta di congegno diano prova di reazione e discordia verso la componente realistica della società umana. E i poeti, questi cavalieri che talvolta riescono a istruire una lingua possibile in grado di rappresentare la forza espressiva dell’esser vivi, che fanno? Occasionali somministrazioni d’emorragica letteratura o rispetto e fedeltà alla parola poetica, addentrandosi nel mondo intimidito di Leopardi di fronte alla superiorità dello sterminator Vesevo? Dove, non va dimenticato, la fauna non temeva gli eccessi tellurici del tempo ma senz’altro le orme cittadine.
Oggi, contro una lingua passiva, Franco Marcoaldi non soltanto si guarda intorno, fra mura casalinghe ed esterni luminosi e liberi, ma colloquia intimamente con esseri viventi di svariate forme e possibilità vitali: grilli, cani, gatti, falchi, asini, lucertole, serpenti, cicogne, leoni, formiche si radunano in un libro di versi alla sua seconda edizione, dopo aggiunte e varianti che ne accrescono forma e suggestione.
Facendo suo il pensiero di Rosa Luxemburg (lei, in una lettera a Sophie Liebknecht, scriveva di sentirsi molto più a suo agio in giardino che in una seduta congressuale), Marcoaldi riprova le potenzialità della propria poetica provandosi nel canale comunicativo che lo unisce all’ordine naturale: lo stesso in cui tutti noi dovremmo stare ma che abbiamo irrimediabilmente – si direbbe – perduto. Sono versi di grandi colloqui, molto intimi, in cui le specie animali giammai vengono antropomorfizzate, ma dove gli sguardi reciproci sono improntati a un’affabilità precisa e i diversi idiomi trovano punti d’intesa ineluttabili. Le risposte animali sono sottintese, giungono al lettore anche quando la poesia s’interrompe in favore della successiva. Un agio armonico favorisce la conoscenza reciproca, e il tu usato dal poeta è ben lontano da stereotipi e ossessioni wild. Se mai è la sorpresa a guidare lo scrittore, o un allargamento della pupilla quando il falco (per esempio) vola alto, e sparisce come sorta di cometa “aviaria”.
Il Canzoniere che leggiamo contiene vasti territori e un gran numero di punti cardinali, fa di tutto per entrare nella vastità del pensiero animale e nelle variegate forme del proprio suono stereofonico. Gli esseri viventi del pianeta sono in attesa, da sempre, di un linguaggio e uno sguardo felice dalle cosiddette creature “pensanti”. Non solo dai poeti le vorrebbero. È certo, ma non sembra che si riesca ad andare oltre le centenarie sopraffazioni, né ad animarci limpidamente in mezzo agli animali. Dunque il canto distintivo di queste poesie è una vocazione a identificarsi col sentire delle esistenze abitanti con noi la Terra, sempre che abbiano ancora voglia di chiedere ragione della nostra superbia, e che non si uniscano alla rivolta degli elementi.
La poesia di Marcoaldi si misura con la visione della terra, senza fraintendimenti s’immerge nella natura allineando i paradossi prodotti dalla specie umana, discontinuità e fluttuazioni emergono dalla storia, e la scrittura per lui non può venir meno alla necessità espressiva del rinnovarsi: la lingua attraversa tutto, libera, guarda alle circostanze e il primo effetto è palese: dagli animali ritorna tanto di più della somma umana a loro imposta.